venerdì 22 novembre 2019

AZIONISTI IN TRAPPOLA NELLE BANCHE POPOLARI



Tradizionalmente, le banche popolari hanno da sempre rappresentato un punto fermo nell’economia del territorio. Le banche popolari, nate da un’azionariato diffuso, di estremo coinvolgimento delle comunità locali, erano il volano di un circuito il più delle volte virtuoso che si distingueva anche per l’attenzione alla piccola impresa, agli artigiani ed in genere al tessuto economico locale.
Dal 2015 non è più così.
A farne le spese, ancora una volta, i soci. Quelli piccoli. In tutto il territorio nazionale.
Prima della famigerata riforma, che è stata “imposta” dall’Unione Europea, il valore della quota era attribuito dai soci nelle apposite assemblee annuali. Talvolta, però è capitato (i casi più estremi sono stati le Banche popolari venete) che i consigli di amministrazione gonfiassero, con l’aiuto di esperti prezzolati, il valore della singola quota. Ciò aveva un duplice effetto benefico: da un lato rassicurava il socio sulla tenuta del suo capitale in quote, dall’altro, rendeva grassi i bilanci delle banche.
Inutile dirlo, su questa prassi, malevola ed illecita, gli Organi di Vigilanza (leggi Banca d’Italia) non hanno fatto granché. Erano tutti contenti.
La fiducia di cui godeva la banca, pur su dati falsi, invogliava i depositi, creava masse di risparmio notevoli ed, in genere, c’era una certa riluttanza da parte del socio a monetizzare le quote, in quanto le famiglie vedevano l’investimento come sicuro e durevole.
Quando il sistema ha imposto la conversione delle quote in azioni, è avvenuto il corto circuito.
Intanto è scoppiata la bolla del valore “gonfiato”. Poi, i soci hanno dovuto fare i conti con la materiale impossibilità di vendere le azioni, sebbene quasi tutte le banche popolari siano quotate (inutilmente) ad un mercato secondario – l’HIMTF – che in realtà è poco frequentato e che ha visto deprezzarsi il valore della quota-azione delle varie banche popolari del 30/40%.
I volumi di scambio sono bassissimi e le Banche popolari – di fatto – con un’artata interpretazione del Testo Unico Bancario spesso rifiutano di rimborsare le quote-azioni al socio che intende uscire dal capitale sociale, prendendo a mente la necessità di salvaguardare il “capitale sociale”.
Di fatto, a meno che non si goda di “raccomandazioni” privilegiate (vedi il caso di Renzo Rosso e di Giuseppe Stefanel che hanno venduto le loro azioni di Banca Popolare di Vicenza realizzando utili per centinaia di migliaia di euro, quando già la banca era in crac e rifiutava di acquistare le azioni agli altri soci), il socio che vuole recedere dalla Banca ha solo due alternative: sperare di vendere ad altro privato (leggi “pollo”) o assoggettarsi alle macchinosità dell’HIMTF, senza nessuna garanzia di prezzo e di tempo.
Il semplice recesso, o l’esclusione (si pensi alla morte del socio), spesso fanno scattare nella Banca il rifiuto al rimborso, rifiuto che, legge alla mano, è sicuramente illegittimo.
Sono già in corso numerosi contenziosi, ed il caso è arrivato sin’anche all’Alta Corte di Giustizia Europea.
Vi sono interessanti pronunce dei Giudici di merito che ristabiliscono la legalità, denunciando gli abusi delle Banche.
Ancora una volta la politica è latitante ed al contrario di quanto strombazzano i politicanti di nuovo e vecchio corso, i risparmiatori fanno sempre più la figura di sprovveduti e la fine dei truffati, spesso perdendo i risparmi di una vita.
Ma il risparmio è o non è un valore tutelato dalla nostra Costituzione?
Abbasso i BANKSTERS!!!
By Michele Barbera