giovedì 25 ottobre 2018

L'ASSISTENZIALISMO NON AIUTA LA CRESCITA... ANZI

Nel caos delle verità o delle quasi-verità che circolano in questi giorni sulle conseguenze dell'azione di politica economica del governo, è emersa una conclusione evidente: nessuno ha la sfera magica per prevedere esattamente quali saranno gli effetti tra qui ad un anno o fra cinque anni.
Si possono solo fare previsioni statistiche, imponderabili e fumose, pronte a cambiare ad ogni levata di vento. Troppe le incognite sul circuito macroeconomico, politico e finanziario, non solo dell'Italia o dell'Europa, ma del mondo.
Il sistema è globale, che lo si voglia o no.
Con queste premesse una riflessione la vogliamo fare.
In un circuito macroeconomico le variabili principali ed essenziali sono la domanda e l'offerta. Ma per incrementare le grandezze (e quindi la ricchezza e/o il benessere ) deve esserci un terzo fattore di crescita: la produttività.
Si produce di più, cresce la domanda e cresce l'offerta. Questo è un circuito virtuoso.
Se, invece, di incrementare la produttività si “droga” il circuito, facendo crescere solo la domanda o l'offerta, alla fine gli equilibri saltano. E questo è matematico. Perchè si tratta di economia e non di statistica futuribile.
Dunque, l'assistenzialismo fine a se stesso può funzionare al limite, solo in un circuito autarchico, chiuso, come ha fatto Trump in USA. Ma più che di assistenzialismo, si può parlare di protezionismo. Trump ha bloccato le importazioni, facendo incrementare la produttività interna dei beni, il che ha creato posti di lavoro e, dunque, la domanda ed i consumi interni.
Quanto questo sistema chiuso possa durare non lo sa neanche lo stesso Trump: l'economia ormai si regge su formule globali e gli USA non possono chiudersi in se stessi a lungo.

Probabilmente tutto durerà fin quando durerà Trump, poi necessariamente il mercato globale estenderà i suoi tentacoli anche sul protezionismo americano.
L'Italia, che ha una bilancia commerciale assai dinamica, non può attuare un sistema chiuso. Aumentare il deficit significa solo aggravare il debito che tutti gli italiani hanno. Con il sistema monetario nazionale, ad un certo punto, come estremo rimedio, c'era il ricorso alla “svalutazione” della lira. Ma il sistema di svalutazione, se da un lato, operava un ribasso di "valore" e poteva incrementare le esportazioni, dall'altro implicava un costo occulto, in quanto il denaro svalutato comprava meno beni ed attirava meno investimenti finanziari.
Quindi, una moneta forte come l'euro, di cui l'Italia – a torto o a ragione – ormai si avvantaggia implica che il sistema economico deve essere prima di tutto solido, e deve puntare alla produttività, allo sviluppo economico.
Ecco perché la politica del reddito di cittadinanza, senza risorse reali che lo sostengano, diventa solo un aggravamento del debito pubblico, non una crescita della ricchezza e nemmeno un vantaggio economico, ma solo l'edizione moderna del panem et circenses con cui gli imperatori romani tenevano buoni la massa dei derelitti. Ma gli imperatori facevano i soldi con le prede ed i bottini di guerra che rubavano ai popoli invasi e tartassati.
L'unica via praticabile in Italia non è la politica assistenziale, ma una politica economica che riduca il peso fiscale sulle attività produttive e che sfrutti le risorse comunitarie per creare posti di lavoro e incrementare la produttività. Da lì deriva la reale ricchezza e l'incremento del welfare.
Quindi, meno burocrazia nella gestione delle risorse comunitarie, meno carico fiscale sulle imprese e sul lavoro autonomo. Di contro, più agevolazioni all'esportazione e più controlli (e pesi) sulle importazioni extracomunitarie che, slealmente, penalizzano la produzione interna.
Mentre noi italiani vediamo l'Europa come una “matrigna” e la guardiamo con sdegno, le altre nazioni, più furbe, la coccolano e la sfruttano. Ed alla fine a pagare il conto siamo tutti noi, cittadini europei, italiani compresi.
By Michele Barbera  

domenica 7 ottobre 2018

Le cinque regole d’oro dei MILLENNIALS: una generazione nata per combattere


L’appellativo di “bamboccioni”, coniato da quei bacucchi di Monti e della Fornero (che viceversa iperviziavano i loro figli con posti fissi e stipendi da super-raccomandati) deve averli fatti incazzare.
E così i Millennials, ragazzi e giovani nati a cavallo del millennio, sfregiati da una crisi mondiale con pochi precedenti, si stanno prendendo la loro brava e giusta rivincita.
Cresciuti a pane ed ipad, allevati all’agonismo spinto di X-Factor e GF, hanno capito che la vita non regalerà loro niente. Sono abituati alla competizione, poco importa se virtuale o reale. A dare il meglio di loro stessi, senza risparmiarsi, sulle strade e nei talent-show.
Viaggiano tanto, ma non sono sprovveduti. Sanno pianificare il futuro, ma mettono in conto errori, fallimenti ed imprevisti.
Studiano tantissimo, preparano i loro progetti di vita a volte politicamente scorretti, a volte folli o visionari, ma perseguiti con costanza e tenacia invidiabile. Ma non studiano solo o necessariamente a scuola, talvolta da loro stessi definita nozionistica, asfittica e deludente. Sono affamati di novità ed affascinati dalla tecnologia.
Il genio americano dei bitcoin, Erik Finman, 19 anni e un patrimonio personale di 4 milioni di dollari, aveva scommesso con i genitori che se fosse divenuto milionario all’età di 18 anni non avrebbe frequentato l’università. Ed ha vinto. Con scorno evidente di padre e madre (entrambi dottori di ricerca alla Stanford University)
Tutto il contrario di Davide Fioranelli, 29 anni, italiano e patron di una società a Londra che vale 21 milioni di sterline. Lui, dopo la laurea in finanza internazionale in Italia, ha fatto un master a Shangai. Un solido percorso formativo che ha saputo mettere a profitto.
L’anglo-indiano Akshay Ruparelia, a soli 19 anni è titolare di un patrimonio personale di 16 milioni di sterline, raggiunto sfruttando un suo personale progetto nel campo delle compravendite immobiliari.
Ma i figli dei boomers (li chiamano così i genitori di questa generazione, “colpevoli” di aver vissuto i boom degli anni ’80) non hanno in testa solo soldi e profitto.
È la storia di Boyan Slat, olandese, classe 1994, che ha fondato un ente no-profit, The Ocean clean-up, ed ha raccolto oltre 2 milioni di dollari per realizzare un progetto tecnologico che serve a ripulire gli oceani dall’inquinamento di plastiche.
Uno dei principali Millennials di successo, è il cinese Zhang Yiming, giunto alla “veneranda” età di 35 anni con un patrimonio personale di 4 miliardi di dollari. Zhang ha fondato una piattaforma di applicazioni (le famigerate “app”), ma ha anche una sua filosofia di vita, che trasmette ai suoi collaboratori e fan: (1) essere curiosi; (2) rimanere ottimisti di fronte all’incertezza; (3) non accontentarsi di essere mediocri; (4) essere umili; (5) pensare a lungo termine.
Noi degli “anta” forse non ci siamo abituati, ma dovremmo ascoltarli di più questi “vecchi” giovani maestri, che della paghetta non sanno che farsene, non hanno paura di fare sacrifici e di mettersi in gioco per le loro idee. Un giorno, sempre più vicino, il mondo sarà loro.
By Michele Barbera