lunedì 21 luglio 2025

MENFI: RISORSE IDRICHE E TUTELA DELL'ACQUA PUBBLICA

 

Avrei voluto partecipare e con interesse al Consiglio comunale scorso sulla gestione pubblica dell'acqua e sulla necessità di costituire la "Consulta idrica" cittadina da tempo ostacolata ingiustamente da posizioni miopi e politicamente avventate. 
Avrei voluto porre a tutti i Consiglieri i seguenti semplici quesiti: 
1. Avete idea delle risorse idriche di Menfi e che fine fanno?
2. Avete idea delle politiche di Siciliacque per le suddette risorse?
3. Avete idea delle politiche della Regione Siciliana sulle risorse idriche?
Non voglio risposte avventate, ma invito tutti ad una riflessione. Seria.
I tanti decantati Pozzi in C.da Feudotto ( meno male che ci sono) sono stati scavati ai margini del c.d. Bacino Menfi-Capo S. Marco, una complessa rete idrografica che comprende la zona del Magaggiaro, il Comune di Montevago e si estende sino a lambire la frazione di S. Anna e il territorio saccense sino a Capo San Marco. 
Il complesso, negli atti del Piano regionale di Tutela delle Acque, viene definito una "risorse rilevante e strategica", anche se ha una contraddittoria valutazione dal punto di vista chimico (buona) e ambientale (scadente). 
In un documento del 2024, Siciliacque afferma testualmente:  Dai pozzi Feudotto di Menfi, profondi 250 metri, si ricavano 40 litri al secondo che alimentano l’acquedotto Garcia. 
In un anno Siciliacque preleva circa un miliardo e mezzo di litri (pari a un milione e mezzo di metri cubi) dai pozzi di Menfi per un acquedotto che serve tre province. Ammesso e non concesso che le dichiarazioni di Siciliacque siano veritiere. 
Ancora, l'acqua dei pozzi di Menfi finisce nell'acquedotto Garcia che, secondo le politiche scellerate di Siciliacque, rilevata da un documento del 25 febbraio 2025, aumenterà la portata dagli attuali 450 litri al secondo a 760 litri al secondo. 
Va da sé che a Siciliacque poco interessa il Comune di Menfi e la sua rete idrica e tantomeno i bisogni dei menfitani. Quel che conta sono i pozzi. Poco importa se periodicamente i tubi di prelievo dei pozzi devono essere abbassati di quota stante l'esaurimento della falda. Sempre più giù...
La guerra che ha fatto Siciliacque a chi si è opposto alla costruzione dell'acquedotto che dall'invaso Garcia porta in provincia di Trapani (100 ml. di euro) per servire i Comuni di Mazara, Marsala e Petrosino, è stata devastante, ma quel che più ha colpito è che nessuna istituzione pubblica ha saputo difendere il proprio territorio e le proprie risorse. Nemmeno Menfi, che sui pozzi in questione si ritrova un adduttore che può prelevare in qualsiasi momento ulteriore acqua secondo i desideri di Siciliacque.
L'intervento evidente della lungimirante politica trapanese ha fatto il resto. Sta di fatto che in provincia di Trapani la risorsa idrica sta diventando assai strategica e rilevante, anche con la riattivazione dei dissalatori. Mentre da noi...
Badate bene che Siciliacque non è pubblica. 
E' una società per azioni in cui c'è IDROSICILIA al 75%. Questa società è una controllata di ITALGAS s.p.a., una società quotata in Borsa, che appartiene a sua volta a CDP Reti s.p.a., SNAM s.p.a., e poi al board di Siciliacque siedono i banchieri di Lazard LLC, Romano Minozzi, Credit Agricole e Blackrock Inc.. Investimenti, speculazione, profitti.
I pacchetti azionari passano di mano in mano secondo l'appetibilità finanziaria ed economica della Società Siciliacque spa. La Regione Siciliana si "deve" accontentare di un miserabile 25% del capitale, non idoneo a prendere qualsiasi decisione, ma solo a regalare due posti in consiglio di amministrazione, utili e strumentali come "sottogoverno". 
Il criterio è il profitto, il metro gli investimenti, il guadagno il minor costo sulla risorsa prima. 
In pratica, Siciliacque s.p.a. vende ai Siciliani la stessa acqua dei Siciliani, ricavandoci un bel guadagno: il risultato del bilancio 2024 di Siciliacque S.p.A. è stato un utile di €.5.557.437,00.
Pagati dai Siciliani, ovviamente.
A chi gioca sui guadagni non interessa investire sui dissalatori, come - ad esempio -  ha fatto meritoriamente la Regione Puglia che ha acquisito il 100% del capitale di Acquedotto Pugliese. Grazie ad una adeguata strategia economica,  recentemente ha costruito il più grande dissalatore di Europa, e  ha anche concesso ai pugliesi un "bonus idrico" per le fasce più disagiate. 
E da noi?
Vergogna assoluta. Reti fatiscenti, zero investimenti produttivi, nessuna strategia sulla circolarità dell'acqua mediante i dissalatori, se non la gestione di una emergenza permanente. 
Questo è il risultato di Siciliacque che, purtroppo, è in mano solida di un gruppo di privati che fanno profitti, non della Regione. 
Questa è privatizzazione dell'acqua pubblica. Senza se e senza ma. 
Tutto questo è sconfortante, specie per il nostro futuro. Per il futuro dei menfitani e dell'intera Regione. 
Stiamo promuovendo un gruppo d'opinione per convincere la Regione ad acquisire l'intero capitale di Siciliacque, a fare investimenti sensati e puntati alla circolarità della risorsa idrica non semplicemente alla trivellazione del suolo ed alla costruzione di mega-acquedotti, costosi, inutili e dannosi per l'ambiente. 
Bisogna muoversi.
Ecco perché i menfitani si devono tutelare, anche con la Consulta idrica cittadina. 
E' vero che non esiste un obbligo generale di costituzione della Consulta idrica cittadina, ma è anche vero che la legge prevede la partecipazione dei Comuni al Servizio Idrico Integrato e la costituzione di organismi di partecipazione dei cittadini per coinvolgere i cittadini nelle scelte e decisioni relative al servizio idrico. 
E' strano che perfino la vituperata AICA ha una propria Consulta idrica e a Menfi... non solo non la vogliamo costituire, ma litighiamo come i polli di manzoniana memoria che, anziché unirsi mentre li volevano mettere nella pentola a bollire, sbertucciavano tra loro. 
Riflettete cari amici del Consiglio Comunale. Permettetemi di dirvi che siamo giunti ad un bivio. Non c'è più tempo per litigare inutilmente. I nostri carnefici hanno già acceso il fuoco. 
Riflettete.
Michele Barbera 


venerdì 3 gennaio 2025

AGRIGENTO CAPITALE DELLA CULTURA 2025: IL TUTTO ED IL NIENTE

 


Agrigento nel 2025 ha un'occasione storica: è capitale della cultura.
Invece...
È di queste ore la polemica per il cartello ANAS sbagliato, che contiene ben due rozzi strafalcioni grammaticali. Poco male. Dopo la denuncia del Corriere tramite la salace penna di Gian Antonio Stella, il cartello è stato (o sarà) rimosso.
Eccola la “pezza”, il “rattoppo”. Che pare caratterizzare tutta l’approssimativa organizzazione delle attività di un appuntamento storico per la città di Pirandello.
Chi è minimamente addentro l’organizzazione sa benissimo di riunioni convulse, di prese di posizione, di arroccamenti, di campanilismi e di ostracismi, che si consumano da un bel po’ su scrivanie di eccellenti uffici, nei salotti illuminati, davanti alle tazzine di sapido caffè, e così via.
Agrigento Capitale della Cultura è diventata l’occasione di un palcoscenico malato e tristemente tragico, in cui l’arte, la letteratura, l’esaltazione di luoghi mitici annegano in complicanze burocratiche e di favoritismi “bilanciati”, inviluppati in reti complicate di preferenze e amicizie political-scambiste.
Regnano i grand commis, i faccendieri mediatici, gli affarismi beceri, e, perché no, i paradossi pirandelliani, le convenzioni umorali, le sottili vendette e le rivalse dei dogmatici istituzionali.
No, signori miei, non è questione di “cattiva” organizzazione.
Sbaglia chi ritiene che Agrigento e gli agrigentini siano incapaci di organizzare eventi o fare programmazioni culturali.
Il concerto dei “Volo” è stato l’esempio di come ad Agrigento la finzione possa divenire realtà, con la complicità mass-mediatica del popolo agrigentino: un falso storico che, però, ha mosso consensi e denaro, soddisfacendo chi doveva soddisfare.
In Sicilia si dice argutamente che “il fatto è uno, il discorso è un altro”. Una cosa è l’apparenza di un caos magmatico (che starebbe pure bene fisiologicamente nella terra di Pirandello), un’altra è la guerra sottile che da decenni si consuma all’ombra delle pietre ataviche della Valle dei Templi.
Ci sono diktat che nessuno può ignorare, ma tutti dovrebbero combattere.
Al bando i “geni solitari” (come Camilleri, prima che lo straripante successo editoriale e televisivo imponesse ai suoi detrattori di accettarlo e digerirlo), via le manifestazioni letterarie “popolari” che davano visibilità agli scrittori locali ed agli artisti in erba, vadano a quel paese i cosiddetti operatori culturali indipendenti.
La cultura agrigentina ha le sue regole, le sue convenzioni, i suoi referenti, i suoi binari, le sue amicizie che devono obbligatoriamente gravitare attorno ai soliti noti, tramite collaudati canali di reciproci favori, conoscenze e precisi “scambi”.  
La cultura agrigentina campa di se stessa, si cannibalizza, miope, incapace di vedere al di là delle colonne del Tempio della Concordia e di Telamoni raffazzonati.
Insomma, la Capitale della Cultura c’è. Solo che ancora non si vede. Sarà una capitale della cultura centralizzata, organizzata ed istituzionalizzata, con la dovuta ipocrita e maleodorante passerella di “vip” annoiati e nomi altisonanti pagati a peso d’oro, con i suoi, direbbe Camilleri, sparluccicanti festini e mostre lustrinate, indorata a dovere e lisciata come il pelo di un porco prima di essere scannato. Sarà la Cultura dei musei, delle rovine pastrocchiate, il tutto curato da abili maneggioni istituzionalizzati che pregano ciascuno per l’insuccesso dell’altro.  
Tutto il resto a mare.
In quel sornione mare Africano, che tutto inghiotte e tutto assimila, crocevia di vita e di morte, di speranze deluse e di illusioni allucinate, forse l’unico elemento eterno ed autentico di questa terra dagli straripanti paradossi e pantomime farlocche.
Il mare, dove Luigi Pirandello, quel figlio del Caos che, criticato nella sua terra e costretto a cercare e ottenere il successo altrove, volle che fossero disperse le sue ceneri. E non mi sbaglio concludendo che, sul punto, Camilleri sarebbe d'accordo con me.
By Michele Barbera


martedì 30 luglio 2024

LA SICILIA VERSO LA DESERTIFICAZIONE


 

Sino a qualche anno fa, gli studi agronomici preventivavano che entro il 2030 un terzo della Sicilia sarebbe stato a “rischio” desertificazione.
Oggi la realtà è ben più drammatica. L’inettitudine di una classe politica da quarant’anni a questa parte ha aggravato la cronica “siccità” dell’isola sino a farne una perenne emergenza e una drammatica calamità.
I modelli matematici parlano di uno-due anni di “sopravvivenza” idrica dell’isola. A meno di un miracolo divino, i siciliani - fra poco meno di due anni - vivranno in un territorio massimante a carattere desertico, con il settore primario (agricoltura e pastorizia) che da eccellenza del territorio, diventerà marginale. L’economia della Regione entrerà in un costante processo recessivo e l’emigrazione diventerà una necessità.  
Oggi dei 24 invasi presenti nell’isola sei sono prosciugati e gli altri vedono progressivamente calare il loro livello.
La Giunta regionale ha delegato a Prefetti e commissari vari la patata bollente, che parlano di trivelle e pozzi come se il sottosuolo dell’isola fosse pieno d’acqua e così facendo innescano un irreversibile depauperamento dei bacini e l’ulteriore degrado del territorio.
Tutto è sbagliato. Non è questa la strada, caro Presidente Schifani.
In Puglia Emiliano, ha speso 100 milioni di euro per fare il più grande dissalatore d’Europa.
In Sicilia si è speso 100 milioni di euro per un inutile acquedotto che va dall’invaso Garcia sino al trapanese. Come se il Garcia, che peraltro è oasi naturale, fosse strapieno di acqua e non, invece, boccheggiante come è all’attualità. Vogliamo porre fine a questo dramma che è ormai una farsa?
Caro Presidente Schifani, perché non mettiamo un po’ di sale in zucca e azioniamo il cervello?
1. Togliere di mezzo Siciliacque. Un carrozzone, inutile, spaventoso, drammatico. Che ragiona con logiche di profitto, divora risorse, manca di progettualità e investimenti sociali. A parte il fatto che è privata, la Società è stata incapace di fare fronte a qualsiasi emergenza, miope nella logica di profitto, preferisce trivellare e rivendere l’acqua ai siciliani piuttosto che fare investimenti a lungo termine che possano abbassare i costi del servizio idrico per tutti i siciliani.
2. Togliere di mezzo le varie società d’ambito. Sono carrozzoni elettorali, moltiplicano i passaggi burocratici, hanno un costo inutile e si sono dimostrati assolutamente inefficienti.
3. Istituire un’unica agenzia regionale PUBBLICA con uffici centralizzati a cui delegare la programmazione per obiettivi ed efficiente per la tutela ed la circolarità delle risorse idriche. L’Agenzia deve avere al suo interno sezioni provinciali in modo da coordinare l’intervento pianificatore per singola provincia. Delegare ai Comuni la gestione premiale territoriale delle reti con interventi di monitoraggio e manutenzione della rete idrica locale, per evitare le perdite e le dispersioni.
4. Riattivare e progettare i dissalatori alimentandoli con energia solare. È l’unico modo per rendere circolare la risorsa idrica e costituire una fonte rinnovabile per l’agricoltura e l’uso civico. Costa molto di più fare fronte ad un’emergenza diventata cronica e che nei prossimi anni diverrà insostenibile dal punto di vista ambientale e finanziario. Basta un solo progetto, modulare, con i dissalatori di nuova generazione, che possa essere utilizzato per ogni nuovo dissalatore. Non occorre fare nove-dieci progetti.
5. Programmare la manutenzione degli invasi e dei corsi d’acqua. Per consentire l’immagazzinamento dell’acqua nei periodi piovosi ed evitare esondazioni, dissesti e fenomeni alluvionali. La Regione dispone di numerosi studi sulle zone franose e quelle più soggette a dissesto idrogeologico. Mettiamoli a frutto.
6. Favorire il rimboschimento anche nelle aree private. Rimboschimento e reddito sostitutivo per le aree incolte con formule crescenti e premiali per i privati in parallelo con l’anzianità dei boschi. Ciò favorisce la manutenzione degli alberi e riduce il rischio incendi, motivando il privato a custodire la risorsa boschiva ed evitare la desertificazione e l’abbandono dei terreni. Un bosco riduce il degrado del territorio, l’impatto delle alte temperature, favorisce il microclima e depura l’aria.
Sembrano compiti giganteschi, ma non lo sono: è una visione chiara e fattibile, aliena da logiche speculative e di profitto. E se non si inizia non si arriverà mai. Iniziamo dalla parte burocratica. Non ci sono alibi.  Non possiamo stare a piangere mentre in tutto il mondo si sbracciano per risolvere il problema della siccità mentre noi siamo bravi solo a farci del male.
La Sicilia e soprattutto i siciliani non lo meritano, caro Presidente.
By Michele Barbera


venerdì 19 luglio 2024

TRUMP, L’UOMO DELL’ANTIPROVVIDENZA

 


Abbiamo ascoltato tutti (o quasi) il gran discorso che Trump ha fatto alla convention del partito repubblicano americano. Ho sentito commenti entusiasti, lui si è definito graziato da un miracolo divino, ha chiamato a raccolta i “patrioti” americani ed ha sciorinato la sua panacea per risolvere in quattro e quattr’otto i problemi del mondo, guerre comprese.
A tutti è sembrato un discorso pacificatore, unionista, moderato.
A me no.
Trump non può smentirsi: è un suprematista, razzista e profondamente autoritario e tendenzialmente menefreghista rispetto al resto del mondo (America first va letto nel senso che il primato dell’America coincide con i suoi interessi autarchici). Né più né meno di un dittatore qualsiasi, come Putin ed altri governanti pazzoidi in giro per il mondo che, in nome di guerre più o meno sante, fanno terrorismo, invadono paesi, sterminano popoli.
Trump ha attaccato gli immigrati, tacciati di essere tutti delinquenti senza mezzi termini, ha detto che come suo primo atto chiuderà i confini con muri e trivelle. Ha detto che ricatterà le nazioni ritirando i contributi economici se non si allineano alla sua volontà.
Trump si è scagliato contro la Corea del Nord, i sommergibili della Russia, ed altre amenità e pazzie in nome della Great America, della Grande America ovverossia gli Usa, piegati alla sua volontà che – a quanto pare – è in grado di governare il mondo.
NO, caro ciuffone Trump, non è la Provvidenza che ti ha salvato dall’odio che tu stesso hai generato come tutti i dittatori. Guardati la storia. I dittatori sono figli del diavolo e prima o poi fanno sempre una brutta fine. Perché si nutrono di violenza, menzogna e di deliri di onnipotenza.
Trump dice che Putin durante la sua presidenza (2017/2021) non ha invaso l’Ucraina.
Falso, guardati la storia.
Putin nei suoi 23 anni di dittatura ha instaurato un regime del terrore e non ha mai smesso di fare guerra: Georgia, Cecenia, Kazakistan, Siria, Transnistria, eccetera, per non parlare dell’invio di milizie in Africa a fomentare guerriglie. Approfittando del ritiro americano in Siria (sotto il presidente Trump), Putin ha sterminato chi doveva sterminare e nel 2019 ha concluso un patto di ferro con la Turchia, paese Nato, per la leadership nella regione.
Putin ha solo una logica (e centinaia di migliaia di morti sulla coscienza): o ci si sottomette a lui oppure distrugge tutto e tutti.  E dal 2014 che la Russia agita le acque in Ucraina, dopo l’invasione “pacifica” della Crimea. La guerra nel Donbass è da dieci anni che fa morti e stragi.
E tu Trump mentre eri presidente? Ti sei semplicemente girato dall’altra parte. Forse perché speravi che Putin smettesse.
O, magari, eri troppo impegnato a tentare il colpo di stato, assaltando il palazzo del tuo parlamento. Alla faccia della democrazia.
Sto tranquillo. Perché tu non avrai mai il coraggio di contrastare la Russia o tantomeno la Cina sull’espansionismo bellico. Li lascerai fare, troverai accordi commerciali protezionistici, strepiterai sulle merci cinesi farlocche offerte a basso costo. Ma alla fine, purché non tocchino i tuoi interessi commerciali, farai finta di nulla se moriranno popoli e l’ordine mondiale verrà sovvertito. Purché avvenga fuori dai confini degli Stati Uniti.
I dittatori, purtroppo, ragionano così. Non facciamoci illusioni.
C’è una cosa di buono nella storia: che i dittatori non durano sempre e con le loro gesta esecrande sono destinati a lastricare l’inferno. E, questo, è l’unico dato certo che ci conferma, caro Trump, l’esistenza di una vera, autentica Provvidenza.
Viva l’America, sì, ma non quella di Trump.
By Michele Barbera


venerdì 21 giugno 2024

L’AUTONOMIA DIFFERENZIATA: LA FORMA E LA SOSTANZA


 

L’autonomia differenziata non è nata ieri. Lo stravolgimento dei principi costituzionali è avvenuto nel 2001 durante il secondo governo Berlusconi con la legge n.3/2001. Fu questa norma a cambiare tutto sul Titolo V della Costituzione. Ma, appunto perché riformava la Costituzione, si pensava che fosse solo una petizione di principio che non avrebbe mai avuto attuazione concreta.
Invece no.
A distanza di 23 anni l’autonomia ce la ritroviamo sul piatto con l’approvazione del Disegno di Legge n.1665 che è un cavallo pazzo, incontrollabile, indomabile,  e che è foriera di conseguenze che oggi non è possibile prevedere, nemmeno da parte della stessa maggioranza che l’ha votata.
Se dovessimo partire dall’origine è indubitabile che la “questione meridionale”, intesa come sottosviluppo del Sud Italia è stata frutto di politiche scellerate postunitarie che da sempre (a cominciare dal saccheggio del tesoro del Regno delle Due Sicilie operata da quel grande mercenario che fu Garibaldi dittatore) hanno puntato a convogliare risorse al Nord ed a spogliare sistematicamente il Sud.
La grande industrializzazione del Nord è passata per il Meridione da cui attingeva materie prime, risorse umane (si dice così?), mercato di consumo per le sue merci, oltre a consumare finanziamenti statali per dotarsi di grandi infrastrutture, mentre il Sud arrancava, imbrigliato nella palude di una burocrazia asfissiante e diffidente e di forme mafiose che lo hanno vampirizzato.
Ma tant’è, è inutile piangere sul latte versato.
Privatizzare i profitti e pubblicizzare le perdite. Era la legge di un certo Rag. Valletta, plenipotenziario manager della Fiat e prototipo dell’industriale del Nord che prendeva il treno solo per andare a Roma, chiedere contributi all’industria automobilistica e maneggiare per la realizzazione di strade ed autostrade a scapito di ferrovie e porti. Trasporto gommato. A farne le spese? Sempre il Sud con ferrovie rimaste ad inizio secolo (scorso). Ma si sa al Sud ci sono solo briganti, mafiosi e nullafacenti.
Cosa ci aspetta con la famigerata “autonomia differenziata”?
Tutto parte dai LEP: livelli essenziali delle prestazioni. Una solenne presa per il culo.
I roboanti proclami di unità, solidarietà ed uguaglianza dell’art.1 della legge approvata affidano tutto ai LEP, che il Governo (quale?) dovrebbe determinare per garantire i servizi minimi sul territorio nazionale. Quali sono questi servizi minimi? A cosa saranno parametrati? Ai servizi del nord o ai disservizi del sud? Ardua risposta e nessuno lo sa.
Per l’intanto, le Regioni possono andare sul “mercatino” delle competenze e pigliarsi quello che più gli aggrada: la merce è varia, si dalla “tutela della salute” sino all’ “istruzione”, dalle grandi reti di trasporto sino alla produzione di energia, etc....
Il bonus per le competenze è che le Regioni si trattengono il gettito fiscale che loro stesse producono. È un circolo vizioso: più produco, più posso acquisire competenze (anche normative e legislative), più divento ricco con le mie tasse, più me ne posso fregare del Governo centrale e delle altre Regioni.
Addirittura, si profila pure la possibilità di organizzare per le singole Regioni la giustizia di prossimità (oggi Giudice di Pace), quindi ogni Regione potrà organizzare un proprio sistema giudiziario. Roba da pazzi!
Come avviene il passaggio delle “competenze” (io direi “poteri”)? Con una “intesa”, che si trasforma in legge dopo vari passaggi politici tra Stato e singola Regione e, dunque, è inattaccabile sotto il profilo amministrativo. 
Quali sono i reali problemi che pone l’autonomia differenziata? Eccone alcuni.
1. Chi pagherà il debito pubblico statale? Le singole Regioni che trattengono il gettito statale lo sottraggono al Governo Centrale che verrà a mancare di essenziali risorse per il suo funzionamento e per il ripianamento del debito pubblico (che è andato a beneficio di quelle regioni). Il debito pubblico è destinato ad aumentare nel tempo, così il relativo deficit.
2. Disfunzioni nella pianificazione economica statale.  Il Governo centrale di fatto sarà paralizzato nella sua azione. Mancherà di personale e di risorse, dovrà attuare pianificazioni differenziate secondo le varie Regioni con inevitabili scontri ed inefficienze sia sulla programmazione che a livello finanziario. 
3. Emigrazione verso le regioni più “ricche”. Il circolo vizioso porterà inevitabilmente ad una maggiore emigrazione (interna ed esterna) verso le Regioni più ricche. Emigrazione non soltanto povera, ma anche dei c.d. “cervelli” e “colletti bianchi”. Chi potrà impedire ad un insegnante, ad un infermiere, ad un medico, ad un ingegnere, ad un pubblico funzionario di emigrare in una Regione dove il suo lavoro è più pagato?
4. Divario infrastrutturale. Salvini vuole fare (a parole) il Ponte sullo Stretto. Bravo. Ma con quali soldi? Salvini stesso ha detto che il maggior onere lo devono sopportare Sicilia e Calabria, due regioni fra le più povere e che non sono assolutamente in grado di sopportare le spese. Salvini lo sa? Lo sa. O prende per il c.... o è stupido. A me sembra buona la prima. Le infrastrutture hanno bisogno di soldi a fondo perduto. Nel centro-nord dal secondo dopoguerra hanno avuto uno sviluppo notevole con fondi statali. Ora la materia diventa di competenza regionale. Voi pensate che la Regione Lombardia, anziché migliorare le proprie autostrade vada a finanziare il Ponte sullo Stretto?   Ed è solo un esempio. Le infrastrutture saranno appannaggio solo delle regioni più ricche che investiranno il gettito sottratto al Governo centrale sul proprio territorio. E Salvini gongola. Però ai siciliani ha detto che possono fare la guardia ai templi greci (bellezze “inarrivabili”, come dice lui).
5. La fregatura dei LEP. Per avere la coscienza a posto il Governo centrale adotterà i LEP. Ma questi livelli essenziali di prestazione garantiranno l’efficienza? No. Sulla carta i servizi ci saranno. Ma a livello pratico le Regioni penalizzate saranno sempre e solo quelle che sono angustiate dal sottosviluppo economico e che avranno fame di “risorse” non sempre disponibili, perché dotate di un gettito fiscale incapiente. Con buona pace dei “servizi essenziali”
6. Maggiori costi per il Governo centrale. Aumenterà il debito ed i costi per una serie di servizi pubblici che comunque il Governo dovrà mantenere anche nelle Regioni ad “autonomia differenziata”, quali il servizio per l’ordine e la sicurezza pubblica, la previdenza pubblica con i relativi istituti assistenziali per lavoratori e pensionati, i presidi giudiziari, gli uffici correlati con il Governo (Dogane, Agenzia Entrate, Ispettorati, etc...). Insomma di tutti quei servizi non “appetibili” dal punto di vista economico per le singole regioni.  
Al di là delle roboanti parole di principio, si profila un’Italia sparigliata, priva di una visione unica e strategia anche sui servizi essenziali, con differenti politiche fiscali, sanitarie, d’istruzione e di investimenti. Ed un Governo centrale indebolito, che sarà debole con i forti e forte con i deboli.
E state tranquilli che Giorgina non sarà in grado di opporsi alle pretese delle regioni che pretenderanno l’autonomia a stretto giro, approfittando del vento politico a favore, pronti a trattenersi il gettito fiscale e i finanziamenti pubblici ed a sottrarre ogni potere e competenza possibile ed utile.
Sul piano politico, per il Governo Meloni questo si tradurrà in una perdita di consensi notevole (ma la Giorgia lo sa e se ne frega), Salvini e la lega si rafforzeranno nel lombardo-veneto e la sinistra risorgerà inutilmente, perché non sarà in grado di contrastare la tempesta scatenata dall’approvazione di questa legge.
Solo un referendum ci potrà salvare. Salvini permettendo.
By Michele Barbera