domenica 5 dicembre 2021

A RISCHIO CROLLO LA TORRE CORSARA DI PORTO PALO DI MENFI: COMINCIA IL BALLETTO (INUTILE) DELLE COMPETENZE

 


Domina la costa di Porto Palo di Menfi da tempo immemorabile. Tutti, menfitani e non, la considerano il vero simbolo di una borgata che svetta su una spiaggia meravigliosa. Quest'estate è stata al centro di una polemica assurda e pirandelliana. 
Adesso, però, la "Vecchia Signora" è stata ferita gravemente, e questa volta di chiacchiere ne possiamo ( e dovremmo) fare pochissime. 
L'attività urbanistica degli ultimi decenni ha vissuto ed è passata dribblando tante "carte", revisioni, adattamenti di PRG ed altre pianificazioni che, al solito, hanno danneggiato molti e privilegiato pochi, ingrassando solo l'Agenzia delle Entrate che è piombata come un avvoltoio sui trasferimenti della misteriosa zona "T" di lotaniana memoria che ha miracolosamente trasformato a fini fiscali i terreni agricoli in terreni "potenzialmente" edificabili e, perciò, sottoponibili ad una bruciante e fantozziana tassa di registrazione. 
Al di là delle barzellette (che fanno piangere), i guasti alla pianificazione urbanistica si sono visti nelle successive esigenze di modifiche dei piani, mai giusti, mai adeguati, mai...tutto. 
Viceversa, a parte gli spendaccioni (ed a volte inutili) interventi buttati qua e là sul territorio, secondo il vento dei finanziamenti, delle buone intenzioni è rimasto poco o quasi nulla. 
Sono rimaste vittime illustri le strade, bucherellate e sfasciate in modo equo per tutto il territorio, vittima le opere pubbliche, vittima gli spazi pubblici a volte usurpati e piegati a logiche private. 
Investimenti? Quali? Tutto ciò che poteva rilanciare il territorio è stato sapientemente bocciato, denigrato, vilipeso ed alla fine devitalizzato. 
Ma ritorniamo alla Torre. 
Nessun intervento negli scorsi decenni. Neanche quando i soldi c'erano. Colpa di chi? Boh.
E' dai tempi dei Regi Decreti che le autorità (con la "a" minuscola) impongono divieti e vincoli sulla zona di Porto Palo.  
Mai una volta, però, che si fossero decisi ad intervenire per il consolidamento del costone. 
Oggi tutti a piangere e tremare per il crollo della Torre che non è quella di Pisa e, state tranquilli, poco ci vuole (questione di baricentro mi spiegava un ingegnere) e potrebbe venir giù.
Gli interventi? Importanti, necessari e urgenti mi diceva quell'ingegnere che ama Menfi, un tipo pratico (forse per questo inviso alla burocrazia nostrana): palificazioni, riempimenti, etc...
Invece, si parla di sopralluoghi, poi di incarichi, poi di progettazione, poi di finanziamenti... poi, poi, poi... L'incubo delle carte. Già. 
Ma una somma urgenza? E di chi del Genio Civile? E la Sovrintendenza? I beni artistici, la Regione, il P.A.I. idrogeologico, la forestale....Come la mettiamo? E se poi qualcuno fa qualche denuncia alla Procura? Le carte debbono essere a posto.
Carte, carte ed ancora carte. 
Non penso che la Vecchia Signora abbia ancora voglia di aspettare. O, forse, siamo noi che non la meritiamo per non averla saputa tutelare, proteggere a tempo debito. 
Poi il colpo di genio. 
Qualcuno propone di lasciarla andare giù e di sostituirla con una gigantografia...di carta: UNA GRANDE FOTOGRAFIA di com'era la Torre. Bella, antisimica, vuota e... piatta, come l'elettroencefalo di qualcuno.
By Michele Barbera 



venerdì 3 dicembre 2021

FACEBOOK E GLI IMBECILLI DI UMBERTO ECO

 




Sono sempre stato un fan culturale di Umberto Eco ed ho letto parecchio di lui (non solo “Il nome della rosa”): era e rimane un saggista formidabile ed un affabulatore colto e raffinato. Dopo la sua morte, nel panorama culturale italiano indubbiamente si è creato un vuoto difficile da riempire.
Tuttavia, non sono mai stato d’accordo sulla sua nota affermazione del 2015 per la quale i social , che pure consentono alle persone di restare in contatto fra loro, danno la parola a “legioni di imbecilli”.
Il “Fatto Quotidiano” etichettò le parole di Eco come frutto astioso di “controcorrentismo”, di  una “battaglia di retroguardia venata di snobismo”, dando, però, al professor Eco l’onore delle armi.
A distanza di anni, morto Eco, le sue parole risultano ancora di più errate.
Questo non perché siano venuti meno gli “imbecilli” o gli ignoranti o i visionari, ma perché siamo sicuri che “zittirli” sia la cosa più giusta?
Quello che mi angoscia, infatti, è ben altro.
La libertà di espressione sta diventando una specie in via di estinzione. E non mi riferisco alla boiata dell’Unione Europea che era giunta (santi numi, se non è follia ed imbecillità questa!) a proibire di dire “Natale” e “Maria”, ma ad una sottile strategia mass-mediatica che, anche attraverso i social (o soprattutto), comprime in modo crescente la libertà di espressione del “dissidente” e non solo quando si tratta di insulti ed improperi.
La televisione, i giornali (quei pochi che sono sopravvissuti), gli stessi social, veicolano informazioni in modo sempre più controllato e plagiato, orientano gusti, tendenze e scelte della gente.
A nulla serve che le Autorità garanti della concorrenza abbiano sempre fascicoli aperti e sfornino multe milionarie alle multinazionali del web, colpevoli di controllare a piacimento le ricerche degli ignari utenti (imbecilli pure loro?). La verità è che dietro questi “orientamenti” ed influenze si nasconde una sottile ed impalpabile censura, un bavaglio virtuale che, a seconda dei temi, diventa via via più pressante.
A tutti sarà capitato di fare una ricerca sul web di un determinato oggetto e subito dopo, qualsiasi sia la pagina aperta, vi compariranno – come per magia - finestre pubblicitarie  ed informative su quel bene. Come se vi avessero letto nel cervello. Ma sappiamo che non è così.
Per cercare opinioni diverse da quelle “dominanti” dovete fare ricerche trasversali, impegnarvi su siti poco conosciuti ed anche lì troverete sempre la pubblicità e le informazioni che il Grande Fratello del web ci propina senza nessun rispetto per la nostra libertà di scelta e di pensiero.
Così come a volte capita di essere “bloccati” o sospesi o vedersi cancellata una pagina perché l’insondabile Entità del web ha decretato che quello che è stato scritto o postato non era “internettianamnte” corretto o ha violato chissà quale “norma” di condotta.
Ecco il pericolo: siamo censurati senza rendercene conto, siamo schiavizzati nelle nostre scelte e razzoliamo come polli nel cortile ben chiuso che l’Entità ha prescelto per noi. Viviamo in una prigione virtuale senza che sappiamo neanche chi siano i nostri carcerieri.
Questo è lo scenario, che ci piaccia o no. A cui pochi hanno la forza e la voglia di ribellarsi.
Allora, caro Umberto Eco, avevi torto. Viva gli imbecilli, anche se sbagliano o esprimono in modo sgrammaticato la loro opinione, viva chi dissente dal “pensiero dominante” e ci trascina nella sua polemica, che ravviva la discussione e la riflessione.
La libertà di espressione implica certamente un pericolo, ma credimi caro Umberto, il pericolo è di gran lunga inferiore a quello di rimanere chiusi nella gabbia del conformismo. Anche se all’ultima moda e griffato.
Del resto, che gli imbecilli siano tali è essa stessa una opinione. Del tutto soggettiva. 
By Michele Barbera


lunedì 15 novembre 2021

I BAMBINI POVERI D’ITALIA

 



No, non si tratta di un paese del Terzo o Quarto mondo, né di una esotica località sperduta in chissà quale Oceano. Sono lì, i bambini della porta accanto, fanciulli che al di là dei proclami di propaganda, faticano ogni giorno a nutrirsi in modo decente, a vestirsi, a soddisfare quei bisogni che troppo spesso diamo per scontati. Compreso quello di andare a scuola e studiare.
Fanno parte del popolo degli invisibili, e non sono semplicemente figli di immigrati, clandestini o orfani sfortunati.
Sono figli di una Italia impazzita che in dieci anni di politica insensata ha triplicato il numero dei bambini poveri. Incoraggiando il calo demografico. Ora sono, secondo le stime, 1.300.000. Proprio così.
Il pubblico disinteresse per l’infanzia, l’assoluta assenza di politiche di concreto e reale sostegno ai nuclei familiari con più figli, una demagogia spinta sull’orlo di una crisi di nervi ha prodotto questo risultato.
Il bello è che nessuno si sente in colpa.
Si parla di politiche ambientali, di diritti delle minoranze “di genere”, si battaglia per vaccini di regime, ma nessuno parla di questo fango in cui lentamente stiamo sprofondando.
Il futuro di una nazione non è semplicemente nella tutela delle risorse naturali, né nel rientro del debito pubblico.
Il futuro di una nazione sono i giovani e prima di loro i bambini.
L’attenzione alle famiglie con figli è stata disastrosa. Si disincentiva la procreazione, si abbandonano a se stesse le madri lavoratrici che spesso si debbono super-impegnare e fare acrobazie su due fronti: la famiglia ed il lavoro. “Figli non ne vuole fare più nessuno” è il mantra di una società alla deriva.
Le famiglie hanno perso oggi la bussola della loro identità e funzione sociale.
Troppo spesso ci dimentichiamo del ruolo fondamentale che ha la famiglia nella società, troppo spesso genitori egoistici (di qualsiasi livello economico) antepongono i loro interessi ai bisogni dei figli, trascurati, deviati, se non abbandonati a se stessi. Sacrificati sull’altare società consumistica: i figli costano, meglio farsi la fuoriserie o la crociera esotica.  
Neppure la scuola è in grado di sopperire alla funzione educativa essenziale che deve implementare quella della famiglia. Gli incontri genitori-docenti sono guerre sino all’ultimo voto, dove ogni critica del docente di turno viene bollata come abuso della funzione didattica e volano minacce se non viene assicurata la promozione a pieni voti.
Per non parlare poi dei servizi sociali, spesso inutili a se stessi, se non deviati e corrotti che, anziché sostenere le famiglie ed i bambini, puntano alla disgregazione, al disadattamento, alla messa sul ricco mercato dell’adozione di carne fresca ed appetibile. Colpa dei genitori bollati come “inadatti” o incapaci.
Vengono sbandierati Ministeri della famiglia, Assessorati per la solidarietà sociale, ma, in concreto, nell’assoluto deserto di valori sociali e familiari, prendono piede, per chi se le può permettere, le scuole di “miss-ballerine-cantanti” o quelle di “calciatori-modelli”.
I bambini, per i quali l’esempio vale più di mille parole, inseguono sogni di campioni sportivi o di attricette e cantanti sulla falsariga di influencer svestite e pronte a vendersi all’ultimo like.
Lo studio, la formazione, la cultura diventano scomodi optional, inutili pesi che gravano su cervelli aggiogati a Instagram, Tik tok e compagnia bella.
È un disastro sociale che svilupperà i suoi effetti collaterali nel prossimi anni: vi fareste mai curare una caviglia slogata da un Ronaldo qualsiasi? O affidereste il progetto di una casa alla Ferragni?
Internet ha sviluppato la capacità predatoria di individui senza scrupoli che speculano sulle voglie e inducono desideri nei ragazzi i cui genitori, per una malevola pace familiare, contrabbandano l’ultimo modello di smartphone o di gadget firmato con il silenzio deviato di bambini e ragazzi. Ma questo non può acquietare le loro coscienze.
Occorre una vera rivoluzione che riproponga il modello famiglia come laboratorio sociale, che intervenga non con inutili sussidi a “perdere”, ma con finanziamenti di scopo per il sostegno delle nascite ed il progresso negli studi e nella società del fanciullo.
Fin dal 1924, all’indomani del disastro della Prima Guerra Mondiale, le Nazioni Unite adottarono una “Dichiarazione universale dei diritti del fanciullo”, poi integrata nel 1959. Pochi articoli, densi di contenuto, che dovrebbero indirizzare politiche attente allo sviluppo individuale del bambino ed a tutelarlo in ogni sua esigenza. La Dichiarazione pone il divieto di sfruttamento, il diritto di ricevere un’educazione adeguata, di assicurare la libertà e la crescita dei fanciulli. Pochi articoli, che sono rimasti lettera morta anche nei cosiddetti paesi civili, ammorbati da una politica fatta di molte parole e pochi fatti.
Ma si sa, i bambini non votano e quando protestano meglio zittirli con la play station che trascorrere un pomeriggio con loro.
Vergogna.
By Michele Barbera


giovedì 16 settembre 2021

UNA MARINA DI LIBRI: UN'OCCASIONE DI CULTURA, INCONTRI E FORMAZIONE

 

 

Anche quest'anno una Marina di Libri, giunta al ragguardevole traguardo della Dodicesima Edizione, si presenta come una solida realtà culturale nello striminzito panorama letteral-culturale siciliano, una "stitichezza" che fa male al vivace movimento di scrittori ed autori isolani. Le manifestazioni che dovevano segnare la "ripartenza" si sono improvvisamente ristrette, sempre più influenzate da logiche micragnose e miopi, da boicottaggi politici e  da veti sub-culturali agli editori indipendenti, ai nuovi autori o agli autori che difettino di sponsor (leggi spot ed influencer o bella presenza). Si preferisce il libro di "consumo" anche se privo di contenuti, la bolla editoriale, il libro-espresso, la grossa (e grassa) editoria a tutto scapito della realtà culturale autoctona e dei nuovi autori.

Esattamente il contrario di quello che dovrebbero essere questo tipo di manifestazioni. 

Una Marina di Libri, invece, ha un nutrito e coraggioso programma, una circuitazione che sa coinvolgere realtà editoriali locali ed indipendenti, un catalogo di incontri che ha saputo integrare anche spazi dedicati a opere di riflessione e di formazione. Per questo ho aderito con entusiasmo all'invito di partecipare a questa manifestazione. Sarà l'occasione, ancora una volta, di dialogare con il pubblico sulla figura di Rosario Angelo Livatino e sugli eventi che lo hanno condotto all'epilogo della sua esistenza in quel mattino di settembre di trent'anni fa.

Dove è finita una vita è iniziata una storia nuova, un cammino che ha coinvolto la gente di una provincia martoriata dal crimine e che si è raccolta intorno alla figura di Rosario Livatino, un riscatto sociale che è stato consacrato da Papa Francesco, che ha additato Rosario come modello non soltanto per gli operatori del diritto, ma anche ai giovani ed a tutti i cristiani. 

Questo saggio, nato per supportare le ragioni del martirio in odium fidei ed affidato alla Postulazione retta da Mons. Bertolone, pubblicato ancora prima che la Congregazione ed il Papa promulgassero i decreti di beatificazione e riconoscimento del martirio, consente di affrontare e di riflettere sulla figura di Rosario Livatino non soltanto in termini agiografici, ma ne risalta l'impegno e l'azione nel contrasto tra una Chiesa che vuole affermare i valori di fede, speranza e carità ed una mafia che abbrutisce con la sua violenza aberrante una terra desiderosa ed affamata di giustizia. 

Debbo ringraziare il giornalista, critico e studioso Enzo Gallo, dell'Associazione Amici di Rosario Livatino, che ci accompagnerà in questo incontro che vuole, sopratutto, rendere testimonianza ad un figlio di questa nostra Sicilia, oggi vivo nella memoria della Chiesa universale. 

Un ringraziamento di cuore alla Organizzazione di Una Marina di Libri ed un Augurio di longevo e proficuo impegno a difesa e promozione della cultura siciliana. 

By Michele Barbera 


venerdì 9 luglio 2021

GIANMARIO ROVERARO: UNA RIFLESSIONE SUL SUO SEQUESTRO ED UCCISIONE

 

Correva l’anno 2006. 
L’Italia dello sport, il nove luglio festeggiava la vittoria ai Mondiali, con la Francia battuta sul filo dei rigori. Qualche mese prima, ad aprile, l’antimafia siciliana segnava negli annali l’arresto di Bernardo Provenzano, il sanguinario boss di Cosa Nostra.
Tra le pieghe della cronaca estiva di quell’anno, in una dimensione tragicamente umana, accadeva anche qualcos’altro: il ventuno luglio veniva ritrovato il corpo martoriato di Gianmario Roveraro, conosciuto per il suo passato di campione di salto in alto ed economista di grandissimo talento.
Gianmario era stato ucciso l’otto luglio, dopo un sequestro durato pochi giorni. In modo barbaro, brutale, odioso: il suo assassino, dopo avergli sparato a bruciapelo, in un impeto bestiale, aveva infierito sul corpo, smembrandolo ed abbandonando i resti nella campagna di Parma.
L’esecuzione efferata di Gianmario lasciò scossi tutti coloro che lo avevano conosciuto e che erano rimasti già sgomenti dal sequestro avvenuto a Milano qualche giorno prima, mentre stava ritornando a casa a piedi dalla moglie e dai tre figli.
Gianmario era nato nel 1936 ad Albenga, nella riviera ligure, terra con cui mantenne sempre un affettuoso legame. La sua vita è stata segnata da un profondo senso del dovere, da un incolmabile attaccamento al lavoro ed alla famiglia, da un esercizio entusiasta delle fede cristiana, a cui rendeva testimonianza ogni giorno, senza clamori o ostentazione, con il proprio lavoro e con la dedizione agli altri.
Aveva iniziato presto una carriera atletica, quella del salto in alto, che lo portò a conquistare ben tre campionati italiani ed a partecipare pure ad una Olimpiade. Contemporaneamente, si era impegnato tantissimo negli studi per conseguire la laurea in economia con un’innovativa tesi sui fondi di investimento, da lui poi introdotti in Italia e destinati a rivoluzionare il mercato del risparmio.
Economista talentuoso e finanziere riservato, competente e brillante, per i suoi valori cristiani e di aperta solidarietà verso il prossimo, c'era chi lo vedeva come contrapposto a certa finanza laica. Una definizione giornalistica che gli andava stretta e che aveva smentito subito affermando che: "la finanza non è cattolica, laica o massonica, è semplicemente finanza", ribadendo, così, che il suo impegno professionale era ben lontano da dietrologie o secondi fini.
All’apice del mondo finanziario italiano negli anni ottanta e novanta, ne divenne protagonista ai massimi livelli, mantenendo un’integerrima reputazione professionale ed una fede integra che lo accompagnò sino al giorno del suo assassinio.
Gianmario, però, era anche, e soprattutto, altro.
Dotato di instancabile energia, si era dedicato al volontariato, promuovendo, fra l’altro la fondazione dell’Associazione FAES, Famiglia e Scuola, e presiedendo per svariati anni la Fondazione RUI, Residenze Universitarie Internazionali, che promuove la cultura universitaria con la gestione di residenze e la concessione di borse di studio agli studenti meritevoli e disagiati economicamente. Istituzioni e che a tutt’oggi svolgono in modo qualificato le loro funzione nella preparazione delle future generazioni.
Animato da uno spirito vivace e generoso, era prodigo di attenzione verso chiunque si rivolgesse a lui, confidando nel suo impegno e nella sua attenzione. Le sue iniziative sapevano attrarre l’attenzione dei maggiori imprenditori italiani, sviluppando strategie per gli investimenti e lo sviluppo industriale.
La dedizione agli altri, la sua disponibilità, l’empatia che generava nel prossimo, erano sicuramente dei tratti personali che lo distinguevano nel mondo della finanza, spietato e cinico, corroso da interessi speculativi e da azioni spregiudicate.
Gianmario aveva dato prova di tempra forte, di sapere resistere alle insidie di quel mondo malato ed, anzi, di portare la sua luce limpida fin nei recessi più ombrosi, dove il male ed il bene si intrecciavano in trame d’interessi e di speculazioni incomprensibili ai più.
Puro e saldo nella fede cristiana, aveva aderito all’Opus Dei sin dal 1961.
Certo giornalismo bancarellaro aveva speculato su questa adesione, adombrando vanamente trame fosche all’ombra di chissà quali poteri occulti.

L’Opera di San Josemaría Escrivá per Gianmario era solo il completamento naturale della sua formazione cristiana. Lo stato di “soprannumerario”, proprio dei membri sposati, gli consentiva di vivere il suo matrimonio, la sua famiglia ed, al contempo, di appagare una profonda, rigorosa ed essenziale formazione cristiana e cattolica e con l’impegno nelle opere di volontariato e di promozione sociale.
La storia di Gianmario, la sua vicenda umana e professionale, ma soprattutto la sua testimonianza di fede meritano di essere ricordate oggi, a distanza di quindici anni, senza orpelli o falsi misteri.
Egli viveva in un'unica dimensione il suo lavoro professionale, la sua vocazione spirituale, l’elevazione e la dedizione di sé a Dio. Riservato e schivo non cercava notorietà, anche se attirava, come molti hanno testimoniato, stima e rispetto in tutti quelli che lo conoscevano.
La sua scomparsa, determinata da un odio efferato, da una dinamica criminale feroce e disumana, al di là dei processi e delle inchieste giornalistiche non può non interrogare  la nostra coscienza.
Per cosa è stato ucciso realmente Gianmario Roveraro?
Per una estorsione andata a male, per un mero intento criminale?
Appare strano che l’omicida per sfuggire all’accusa di sequestro abbia preferito uccidere, attirando su di sé una pena ben maggiore.
Ancora più strano, quello che l’assassino riferisce ai magistrati il giorno dell’arresto e della macabra scoperta del corpo: “...non mi ricordo di averlo ucciso...ma sento che è morto... io non sono matto, non mi drogo, non bevo”. E subito dopo : “...è molto probabile che l’abbia ucciso io, mi sembra molto strano che l’abbia fatto a pezzi... non mi ricordo di aver sezionato il corpo...”
Eppure l’omicida, per i periti del processo, al momento del fatto era capace di intendere e volere.
Chi è stato ucciso l’otto luglio di quindici anni fa?
L’uomo, il professionista o il cristiano?
L’odio che si è scatenato contro Gianmario Roveraro era quello di un disegno criminale disperato o di un'avversione al credente, all’uomo di fede?
L’assassino, nell’interrogatorio dell’11/12/2006, dichiara che “Roveraro si è suicidato attraverso me, lui ha scatenato la mia rabbia fino ad ucciderlo e farlo a pezzi, ...mi ha convinto a fare il finto sequestro coinvolgendo i miei due migliori amici e poi ha fatto marcia indietro”.

Forse, l’unico mistero dell’uccisione di Gianmario che vale la pena di indagare, sta in queste parole. Parole deliranti, pronunciate, però, da un soggetto dichiarato capace di intendere e di volere. Capace di volere il male. Sino all’estremo.
By M. Barbera


lunedì 10 maggio 2021

LA RECENSIONE: L’OPERA ANTOLOGICA DEI POETI SICILIANI “VENT’ANNI DOPO IL DUEMILA” A CURA DI JOSÉ RUSSOTTI

 



Di Lorenzo Spurio 

Gli studi e gli approfondimenti sulla poesia siciliana contemporanea si arricchiscono di un volume particolarmente pregevole uscito negli ultimi giorni dopo un instancabile lavoro di ricerca, studio e compilazione del poeta messinese José Russotti[1]. Il volume, Antologia di Poeti contemporanei siciliani. Vent’anni dopo il Duemila, pubblicato per i tipi di Fogghi mavvagnoti, è un tomo prezioso che si compone di trecentosessanta pagine ricche di informazioni, note biografiche, approfondimenti, commenti critici, rimandi, studi ragionati e apparati bio-bibliografici sui numerosi poeti e poetesse che ivi sono stati inseriti.

Si sa, ogni operazione antologica desta sempre attenzione e curiosità da parte dei lettori ma spesso non è scevra da opinioni contrastanti tra chi, entusiasta per la propria presenza (magari al fianco di “grandi” della letteratura, presenti anche in manuali e storie letterarie di critici eminenti) e sfiduciato e incollerito per la non inserzione, creano spesso un clima difficile da indagare.

Ruolo del curatore è quello di completare il lavoro per come l’ha ideato senza lasciarsi intaccare più di tanto dalle dicerie e dalle critiche che, dinanzi a un’operazione collettiva come questa che richiama un discorso di aristocrazie e florilegio, immancabilmente si presenta. Ce lo insegna Pier Paolo Pasolini che, con la nota antologia di poesia dialettale uscita per i tipi di Guanda curata con Mario dell’Arco nel 1952 diede adito a critiche furibonde sui cosiddetti “mancati inserimenti” o le sedicenti “gravi lacune” ma anche nei confronti de Dieci condizioni poetiche (1957) dell’anconetano Plinio Acquabona che, più che mosso dall’intenzione di creare un’antologia vera e propria, produsse un testo polifonico – nel quale pure si auto-inserì – includendo alcune delle voci poetiche del periodo che considerava importanti. Anche in quel caso non mancarono critiche. Come – lo riconosco – non ne son mancate qualche anno fa quando compilai i due corposi volumi del Convivio in versi. Mappatura democratica della poesia marchigiana (PoetiKanten Edizioni, Sesto Fiorentino, 2016), con l’inserimento totale di più di 280 poeti (ciascuno con nota bio-bibliografica e un testo scelto) dalla seconda metà dell’Ottocento ad oggi. Si sa il desiderio utopico di totalità non può sussistere nell’imperfettibilità dell’uomo ed è umanamente impossibile approcciarsi in maniera globale e totalizzante in relazione a un “censimento” di questo tipo. Chiaro è che l’antologista, pur non chiarendone in maniera diretta su carta le ragioni, dovrebbe certo lasciare intendere o motivare quelli che sono i paradigmi che hanno condotto alla costituzione di un’antologia in un determinato modo.

Tornando all’operazione editoriale di José Russotti questo aspetto vien chiarito molto bene nella nota incipitaria del poeta Mario Tamburello che, in apertura ai tanti profili bio-bibliografici inseriti dal curatore, sostiene: «Una bella raccolta e, come ogni opera bella, inevitabilmente incompiuta, perché accanto ai “Grandi” e ai già selezionati, altre interessanti voci nuove sono da scoprire nello scenario letterario di Sicilia» (11). Credo che stia proprio in questo la ricchezza di un’antologia: nella capacità di non dirsi mai compiuta e completa e di richiamare sempre continue rivisitazioni, implementazioni ed aggiunte. Non solo alla luce del tempo che passa e che, puntualmente, ci consente di prendere atto di nuovi profili poetici che s’imprimono e di altri che s’irrobustiscono, ma anche per andare di volta in volta a colmare – nei limiti del consentito e delle conoscenze che è possibile raggiungere – quei “buchi” che necessitano giustamente una trattazione, seppur approssimativa e generale, almeno un sorvolo e un richiamo. La limitatezza e friabilità dell’antologia sta proprio in questo che, visto con altri lenti, non può essere che un elemento di forza visto dal critico onesto, dall’antologista premuroso e grande studioso prima di tutto come un dovere morale nei confronti della letteratura. Russotti, dal momento che lascia ben intendere che questo è solo il primo volume di non si sa quanti tomi – e dunque che è un progetto in fieri – mi pare di poter osservare che “naviga” proprio su questo tipo di ragionamento. E per fortuna. Ben dice il poeta Tommaso Romano che, nel commento conclusivo, a titolo riepilogativo dell’intero progetto, osserva che «Russotti [ha fatto] scelte libere e consapevoli, [ha proposto] un suo personalissimo modo di approccio che rimanda e invita il lettore e lo studioso ad approfondimenti scientifici ulteriori» (355).

Un’opera come questa, che si prefigge di raggrumare nelle pagine di un libro tanti (e così tanto diversi) percorsi umani e letterari necessita, oltre che di tutti questi accorgimenti critici che la dotano e la arricchiscono, di una suddivisione degli stessi contenuti. Ecco che viene in aiuto la ripartizione (senz’altro opinabile, ma in tal contesto utile per l’organizzazione) tra due macro-gruppi di poeti “I Grandi di Sicilia” e “I Contemporanei di Sicilia”. Non è una divisione netta tra morti e viventi. Tra i cosiddetti classici, il cui decesso ha marcato un percorso di chiusura e di lettura dell’opera e, semmai, la nascita di una critica fluente e coloro che, nell’attualità, sono impegnati in campo poetico. Difatti troviamo nella prima sezione dei “Grandi” voci importanti – anche a livello nazionale – quali Giuseppe Bonaviri (1924-2009), Bartolo Cattafi (1922-1979) e Nat Scammacca (1924-2005), importante ponte tra poesia siciliana e americana nonché esponente di spicco di un avanguardismo poetico. Giustamente tra i “Grandi” figurano anche (tra gli altri) i poeti Lucio Zinna (1938), Tommaso Romano (1955), Santo Calì (1918-1972) di Linguaglossa (CT)[2], autore importante per gli studi sul folklore della Sicilia orientale, Salvatore Di Marco (1932), poeta dialettale ma soprattutto fine e insaziabile saggista (autore, tra l’altro, di un pregevole saggio su Ignazio Buttitta). Notevole è il profilo del prof. Domenico Pisana (1958) di Modica, attento studioso della poesia degli Iblei con varie pubblicazioni, non solo quale poeta ma anche nelle vesti di teologo. Di Pisana è inserita la pregevole lirica “Canto dal sud est”. Mia fortuna e onore l’aver conosciuto e l’intrattenere rapporti con alcuni di essi.

La seconda sezione del volume, “I contemporanei di Sicilia”, totalizza ben cinquantaquattro inserimenti di poeti contemporanei siciliani che vivono nelle varie zone dell’Isola. Inutile e troppo didascalico citarli tutti (rimando all’indice dei nomi presente in rete); tra di essi segnalo Nino Barone (1972) senz’altro uno dei maggiori poeti dialettali del Trapanese assieme a Marco Scalabrino[3] (1952); Francesco Camagna (1961) di Marsala presente con un doloroso testo, “La strage del pane”, relativo a un tragico episodio che accadde nella centrale Via Maqueda a Palermo in pieno secondo conflitto mondiale; le palermitane Rosa Maria Chiarello (1959) e Francesca Luzzio (1950) di cui la seconda, oltre che poetessa, anche fine critico letterario e giurata in vari concorsi di poesia; Pietro Cosentino (1941) poeta e organizzatore di eventi culturali assieme a Russotti, Emanuele Insinna (1947) con un testo evocativo e una sorta di “manifesto” per la stessa antologia: “Cu voli puisia vegna ‘n Sicilia” (“Chi vuole poesia venga in Sicilia”); le cantautrici Serena Lao (n.d.) e Cinzia Sciuto (n.d.), rispettivamente palermitana e catanese; in particolare la lirica “Cancia lu ventu” della Sciuto è di formidabile presa sul lettore, capace di trasmettere grande fascino e di far sentire quel vento di cui parla sulla propria pelle; il catanese Antonino Magrì (1955), poeta ma non solo, ricercatore attento di voci poetiche locali che nel 2009 pubblicò una corposa antologia di poeti siciliani in quattro volumi; Giuseppe Pappalardo (1945), altro cultore del dialetto siciliano, attivo anche nel promuovere con eventi e iniziative sul territorio l’interesse per il dialetto siciliano e la sua letteratura. Tanti altri sono i nomi che qui trovano collocazione – mi sono limitato a citarne alcuni – ma tanti altri li conosco di persona, li ho incontrati, ne apprezzo opere e codici espressivi; chiaramente tra loro vi è lo stesso curatore dell’antologia – quale promotore culturale e poeta tanto in lingua e in dialetto – ovvero José Russotti di cui il suo Spine d’Euphorbia (2017) ha ottenuto un ampio consenso nella critica.

Russotti con la sua opera pone l’attenzione, con l’intenzione di allontanare lo spettro dell’oblio, anche su autori che, per ragioni di vario tipo, non hanno avuto la possibilità d’imporsi distintamente sulla scena letteraria o per i quali la mancanza di iniziative atte a tenere alti i rispettivi nomi sono mancate o rimaste disattese. Importante la riscoperta e la diffusione del già citato Salvatore Gaglio, stimato medico oltre che poeta e drammaturgo, di Santa Elisabetta di Agrigento venuto a mancare nel 2017. Amplissima la produzione di Gaglio – soprattutto in dialetto – che gli valse numerosi e importanti premi e che, grazie a Russotti e Piero Cosentino, ha visto la dedica, in termini recenti, in un premio letterario a Malvagna (ME). L’opera di Russotti fornisce un ampio ventaglio di possibilità di letture e di approfondimenti; le biografie, gli interessi e le pubblicazioni dei tanti antologizzati – soprattutto in campo critico-saggistico – sono talmente ampie e diversificate che ciascuno – realmente – può trovarvi approdi importanti per ulteriori ricerche, come pure sostiene il prof. Romano.

Opere come queste ampliano la conoscenza e permettono anche il sano confronto, pur nella loro conformazione didascalica – più consona forse all’enciclopedia che al volume di facile utilizzo – e sono utilissime per la loro esattezza e ricchezza di contenuti – ben lungi dalle antologie-museo – nel rendere la poesia viva e presente tra noi, anche quella prodotta decenni ormai lontani. Non è la finalità storiografica, quella di porre le biografie dei grandi nella teca chiusa e dorata della memoria e i contemporanei in teche tendenzialmente aperte nelle quali man mano si assommano materiali, lo scopo del progetto, semmai quello di rendere viva la Sicilia, tra temi, codici, linguaggi, perplessità, pensieri e paesaggi di ieri e di oggi affinché ne curiamo il ricordo e ne facciamo testimonianza.

 Lorenzo Spurio

 31-10-2020



[1] Da vari anni nell’ambito dello studio della poesia mi sento particolarmente affascinato da quella che viene prodotta, oltre che nella mia Regione, in terra di Sicilia. Numerosi eventi letterari nella forma soprattutto del reading poetico da me organizzati in Sicilia a partire dal 2013, in varie parti dell’Isola, mi hanno permesso di conoscere un gran numero di poeti e di entrare in contatto con loro. Una gran quantità di materiali (poesie lette durante i reading) sono state raccolte in un ampio volume collettaneo dal titolo Sicilia, viaggio in versi (Ass. Culturale Euterpe, Jesi, 2019) da me curato che comprende le opere degli autori che dal 2013 al 2019 hanno preso parte a eventi letterari in Sicilia tenutisi a Palermo, Bagheria, Messina, Catania e Caltanissetta. Necessarie, un po’ come nel volume antologico di Russotti in oggetto, due ripartizioni all’interno del volume – in aggiunta a quella degli autori che costituiscono la parte centrale del volume – ovvero quella degli “ospiti speciali” dove figurano, tra gli altri, Maria Grazia Insinga, Salvatore Mirabile, Tommaso Romano, José Russotti e Lucio Zinna e la sezione “in memoriam” rivolta a quei poeti che ci hanno lasciato ma che vanno degnamente ricordati. Quest’ultima sezione è composta da brevi saggi critici stilati dal sottoscritto e dai poeti Antonino Causi, Antonino Magrì e Grazia Dottore sui poeti Domenico Asaro (1973-2018), Antonino Bulla (1914-1991), Maria Costa (1926-2016), Maria Ermegilda Fuxa (1913-2004), Salvatore Gaglio (1949-2017), Alessandro Miano (1920-1994), Gaetano Zummo (n.d.-2018) e Nino Martoglio (1870-1921). Quest’ultimo, chiaramente, fu regista e drammaturgo.

[2] Altro poeta inserito nella sezione dei “Grandi” originario di Linguaglossa, nel Catanese, è Senzio Mezza che lì nacque e che da anni vive a Scandicci (FI).

[3] Quest’ultimo non è contemplato in questo primo volume dell’antologia ma mi pare, comunque, opportuno citarlo.

sabato 1 maggio 2021

LA RECENSIONE: IL SETTIMO COLPO (Catarsi di un eroe dei nostri tempi)


 

di Pina D’Alatri


Un testo intenso di grande spessore morale, ricco di pathos, cosparso del sale della saggezza, illuminato dalla “Parola” di Cristo che risuona in eterno (“Vi mando come pecore in mezzo ai lupi”), la recente opera dello scrittore e avvocato Michele Barbera (“Nessun uomo è luce a se stesso”, Il martirio di Rosario Angelo Livatino in odium fidei et iustitiae, Gianmarco Aulino Editore, Sciacca 2020 pagg. 142).

 Michele Barbera, noto avvocato e scrittore poliedrico di Menfi, appassionato studioso di filosofia e di teologia, ripercorre in questo saggio la vicenda umana del giudice-ragazzino, Rosario Angelo Livatino, ucciso barbaramente il 21 Settembre del 1990, mentre si recava negli uffici del Tribunale di Agrigento, da quattro sicari assoldati dalla “Stidda” (associazione mafiosa agrigentina). Era tanta la sua “purezza morale” che, temendo per la sua scorta, evitava di farsi accompagnare ed utilizzava la propria autovettura per gli spostamenti. Sapeva certamente di essere nel mirino ma, da uomo generoso ed integerrimo, non credeva di essere tanto inviso da poter essere ucciso o seppure lo supponeva, non voleva che altri rischiassero per lui. Allorchè la sua Ford Fiesta amaranto viene speronata dall’auto dei suoi carnefici, egli tenta la fuga a piedi ma viene martirizzato dai colpi di pistola e finito, quando ormai è agonizzante, da un settimo proiettile mirato alla testa. Un’esecuzione in piena regola, Rosario si accascia e ormai in punto di morte ha la forza di chiedere: ”Cosa vi ho fatto picciotti?”.

 In questa domanda, risulta palese l’integrità morale dell’uomo di giustizia che non può supporre un tale odio nei suoi confronti perché egli ha operato sempre per il bene dello stato, punendo la colpa nel colpevole, senza infierire. Gaetano Puzzangaro, il killer ferale, interrogato sul movente dell’omicidio, risponde, con agghiacciante spavalderia: ”Io non sapevo nemmeno chi fosse Rosario Livatino. Ho saputo di lui poco prima della sua uccisione”. Un abisso spaventoso che evidenzia il vuoto morale e spirituale di un’umanità perversa, un settimo proiettile che assume un valore apotropaico. 

I delinquenti si rendono conto che, ormai, il giudice già al sesto colpo è in agonia, ma il settimo colpo diventa il sigillo di un’azione nefanda tale da dare un forte segnale a tutti e da preannunciare la pena della morte a chi oserà opporsi al “basamento” mafioso. E’ un segnale che tutti gli oppositori della mafia debbono cogliere. In realtà Livatino non è inviso, solo, alla mafia ma anche a molti politici locali e nazionali. Egli è un uomo di adamantina purezza, è un giustiziere saggio che crede nel valore catartico della pena, addirittura è capace di portare personalmente il mandato di scarcerazione ad un recluso perché non ci siano ritardi. Egli è sempre alla ricerca di una verità assoluta che determini una giusta pena. 

La funzione del magistrato, per lui, è quella di “giudicare con umiltà e di non dimenticare di avere davanti a sé un altro se stesso, anche se colpevole ma pur sempre titolare di diritti”. Livatino, assumendo un impegno spirituale nell’amministrare la giustizia, diviene garante della giustizia umana sulla terra, intesa come propaggine divina. Proprio per questo egli subisce un effetto “Lucifero” perché il male si scatena contro di lui che, nell’illuminazione divina, ritrova la propria essenza di uomo. Deve, quindi, essere eliminato come un cinghiale impazzito: muore l’eroe, l’uomo puro; di contro, trionfa il boss mafioso che tende a ricoprire un ruolo divino nel dispensare benefici e punizioni, elevando al potere ogni suo protetto. 

Chiesa e mafia: i mafiosi uccidono, “in odium fidei”, chiunque ritengano loro avversario. Ne è un esempio Padre Pino Puglisi che viene ucciso ”perché annuncia il Vangelo che è fede, giustizia, amore, pace”. All’opposto, il boss mafioso vuole sostituirsi a Dio con atti di superbia, manipolando i messaggi di amore, umiltà e perdono. Di contro, Livatino è caritatevole con tutti, anche con i colpevoli, ritenendo giusto punirli ma senza mortificare la loro umanità deviata. In realtà per lui la “correzione è più importante della pena”, un essere deviante può essere corretto, solo, con una pena adeguata alla colpa. La pena non deve però mortificare il condannato, abbrutendolo ma deve indurlo alla riflessione, proprio con l’espiazione della medesima. Il mafioso è giustiziere, in nome di un dio vendicatore implacabile che egli stesso incarna, una sorta di Anticristo che spazza via tutti coloro che sono testimoni della fede cristiana. La Chiesa ha i propri libri sacri, il mafioso ha il proprio codice illegale e blasfemo ed i suoi operatori sono “operai del maligno”. 

Papa Francesco bolla i mafiosi come “scomunicati” e quindi Livatino è il più grande avversario della mafia perché “apostolo della fede in Dio” e perché “esercita la legge umana e segue la fede cristiana”. Egli è un esempio per tutti coloro che operano nel campo del diritto: per la coerenza tra la sua fede ed il suo impegno di lavoro e per l’attualità delle sue riflessioni. Nella società “liquida” in cui dominano il consumismo, l’effimero ed il mutevole, Livatino riteneva fondamentale la funzione del giudice, fissandone la deontologia. Dopo un periodo di crisi a causa di delusioni nell’ambiente giudiziario, egli aveva recuperato un po’ di fiducia ma da lì a poco sarebbe stato barbaramente ucciso ”in odium fidei” come Monsignor Romero e Padre Pino Puglisi, martiri anch’essi per la stessa motivazione. San Giovanni Paolo II ha dato particolare lustro alla figura del “Giudice Ragazzino”, definendolo martire della giustizia ed indirettamente della fede. Un percorso luminoso che l’avvocato Michele Barbera ha ben saputo illustrare, suscitando profonde emozioni nel lettore.


domenica 21 febbraio 2021

ATTENZIONE!!! L'ACQUA DIVENTA UN BENE PRIVATO SPECULATIVO: LA QUOTAZIONE A WALL STREET... ED IN ITALIA?



Non ci credeva nessuno, ma è accaduto. 
Per la prima volta nella storia.
Gli speculatori di Wall Street hanno realizzato il 7 dicembre 2020 il primo hedge fund, un fondo di investimento sul valore futuro dell'acqua. 
La scommessa al rialzo è fomentata da analisi scientifiche che prevedono che entro il 2035 ci saranno tre miliardi di persone con carenza cronica di acqua, dovuta anche al cambiamento climatico con inverni impazziti ed estati sempre più torride. 
Dopo circa due mesi il future va a gonfie vele, il prezzo dell'acqua va crescendo ed i guadagni si prospettano stratosferici. 
Il valore dell'acqua di riferimento è quello dello Stato della California, e precisamente dei diritti di uso dei bacini idrici. Non a caso è stata scelta la California, dove i frequenti incendi degli ultimi anni hanno innalzato il valore dell'acqua ed il suo uso. 
Il future è una scommessa di borsa che prevede un valore del bene ad una certa data. 
In questo scenario, l'acqua è diventata "l'oro blu", su cui arricchirsi e fare speculazione finanziaria a danno della collettività. 
Senza voler considerare il profilo etico e la natura pubblica dell'acqua potabile, bene dell'umanità, il mercato dei derivati è quello che ha danneggiato milioni di risparmiatori e favorito speculazioni azzardate. 
Solo un'azione politica concreta può impedire che ciò avvenga anche nelle altre Nazioni, fra cui l'Italia. Ma già diversi fondi di investimento di caratura internazionale guardano con interesse a questa speculazione che promette guadagni da favola a tutto scapito non di ingenui e sprovveduti risparmiatori, ma dell'intera umanità. 
Nei prossimi giorni petizioni da importanti organizzazioni umanitarie saranno indirizzate all'ONU ed all'OMS perché si prendano concreti impegni al fine di evitare che anche l'acqua diventi appannaggio di pochi Paesi ricchi e decreti la morte di interi continenti e genocidi.
Fa orrore che l'umanità continui imperterrita a cercare profitti su eventi che investono l'intera umanità, come sta succedendo per il COVID 19, dove le case farmaceutiche hanno lucrato sul valore dei vaccini che sono diventati fonti di guadagno, piuttosto che occasione di condivisione con i Paesi poveri. 

By Michele 

 


sabato 13 febbraio 2021

TUTTI ALLA CORTE DI RE DRAGHI: STREGONI, BUFFONI, CAVALIER SERVENTI, NANI E BALLERINE (E NON MANCANO I BURATTINI)

 


Draghi ha sicuramente un grandissimo merito: quello di essere riuscito a mettere assieme il frastagliato e cespuglioso panorama politico del nostro “parlamentario”.
Era evidente a tutti che il M5S (della sempreverde coppia Grillo-Casaleggio) giocava al rilancio, ma sentir dire da Grillo che Draghi è un “grillino”, supera ogni limite del ridicolo. Di Maio, come i parlamentari 5S, ha salvato (per ora) la poltrona, ma se il suo peso specifico è quello che ha dimostrato sino ad oggi, appare come un ministro “travicello”, di bella presenza e di nessuna sostanza.
Mario Draghi è stata l’ancora di salvezza. Con il suo prestigio sommo di civil servant, non si è tirato indietro da questa sfida, ma a tessere le lodi dovrebbero essere cauti i nostri politicanti.
Draghi è riuscito a dare la quadra ad un panorama politico sghembo: constatare che il trumpiano Salvini va a braccetto con PD e 5S (dopo aver litigato come i polli di manzoniana memoria) è quanto di più vomitevole ed incoerente potesse capitare.
Sì, è vero, ora tutti fanno i bravi bambini, come quando in classe arrivava il Direttore ed ognuno stava a testa china a sorbirsi la paternale.
Del resto, il Presidente Mattarella è stato costretto a buttare giù l’asso, quando ha visto che le ripicche ed i pettegolezzi avevano paralizzato l’azione del Governo, proprio nel momento peggiore: quello in cui si doveva remare per tirare fuori l’Italia dalle secche della pandemia e della recessione economica.
Bravo Renzi? Macché. Da alunno discolo ed impertinente, anche lui ha fatto la fila per applaudire a testa china e schiena prona. Non fà nulla se l'amata Boschi non è ministro.
La barzelletta per ora più in voga è il sentire dire – con prosaica serietà nei corridoi ovattati dei palazzoni – dai nostri leader minimi che ognuno di loro è “padre” del Governo Draghi.
Fesserie. Loro sono i primi a saperlo. Come sapevano benissimo, qualche settimana fa,  che mandare a mollo Conti con la sua zattera di salvataggio avrebbe significato il naufragio dell’Italia ( e la sua resa alla troika europea).
La verità è che nessuno (tranne la sondaggista Meloni) voleva il risiko delle elezioni.
È anche vero che i fondi europei (meglio la loro spesa) facevano gola agli affaristi della politica: troppo ghiotto il piatto per permettere che ci sguazzasse un Governo la cui azione appariva vincolata al litigioso nullafacentismo 5stelle che sfornava sussidi e benefit senza ritorno.
Il nuovo Governo Draghi?
Ha il mio rispetto, ma anche il mio scetticismo.
Non mi aspetto miracoli economici, ma i soldi europei – è evidente – punteranno dritti alla Padania, salvo che poi il debito dovremo caricarcelo tutti, anche quelli a Sud del Po.
La “questione meridionale”, se lo ficchino bene in testa i politologi del nulla, prima dell’invasione sabauda del regno delle due Sicilie non esisteva. Dopo la spoliazione del Sud e l’azzeramento di ogni sua prospettiva economica, il Nord ha trovato le “risorse” (umane e finanziarie) per buttarsi a capofitto nella incipiente Rivoluzione industriale europea.
La Fiat di Vittorio Valletti ha incarnato il comandamento storico dell’industrialismo nordico: privatizzare i profitti e pubblicizzare le perdite. Del resto il Nord ha fatto dell’industria una “missione sociale”. Che ridere.
Il Sud è rimasto ed è al palo: gli interventi della famigerata Cassa del Mezzogiorno, un carrozzone che più politico non si può, servivano solo a “pascere” le clientele politiche, nutrite come maiali all’ingrasso, ma senza alcuna progettualità economica.  
Con buona pace della neo ministra “per il Sud”, l’avvenente (ex) miss Cinema Mara Carfagna, che, a dirla tutta, è un ministro “senza portafoglio”, come dire “non facciamoci troppe illusioni”. La Carfagna ha, forse, il compito più difficile di tutti: trasformarsi nella fatina e fare diventare i sogni realtà. Ma qualcuno le dovrà dire dove hanno nascosto la bacchetta.
Di contro è un dato di fatto che la squadra di governo di Draghi ha ben OTTO MINISTRI LOMBARDI, scarpe grosse e cervello fino, che dovranno dimostrare che il Nord sa spendere i dané , come e quando vuole e che loro sono più bravi a mangiar polenta che i delinquenti e nullafacenti del Sud che stanno tutto il giorno a prendere il sole.
Draghi è un finissimo stratega e se vuol far ripartire la nordica locomotiva “sfiatata”, più che il carbone, dovrà iniettare energia atomica. Ha le carte in regola per farlo e lo farà.
Del resto ha saputo salvare l’euro scricchiolante, cosa volete che sia una nazioncina come l’Italia.
Al Sud ci terremo le mafie e l’emigrazione e Giggino come ministro degli esteri (come a dire, dell’emigrazione). Ben gli sta a chi li ha votati.
L’ultima chicca è il ministro leghista al turismo. Se il livello è quello di un eminente esponente della stessa lega che nel 2010 tacciò il sito di Pompei di essere solo “quattro sassi” e che i soldi dovevano finire prima al Veneto, abbiamo detto tutto.
O no? Il Governo Draghi potrebbe ancora stupirci.
By Michele Barbera


martedì 26 gennaio 2021

COVID19? UN AFFARE DA RICCHI!


Vergogna. Non mi pare ci siano altre parole. La pandemia impazza in tutto il mondo. I sociologi dicono che ha tirato fuori il peggio di noi. Probabile. Di sicuro ha tirato fuori l’egoismo più becero e l’avidità più malsana delle industrie farmaceutiche, cliniche di lusso ed affini. Multinazionali che sperimentano i loro medicinali in tutto il mondo. Anche a Wuhan, dove è scoppiato il caso del COVID. Multinazionali che sulla salute del popolo mondiale speculano con affari in miliardi di dollari (e di euro).
Ciuffone Trump che in pubblico negava la pandemia, ai primi segnali di contagio si è fatto curare ed in quattro e quattr’otto è guarito. Dai giornali si legge che ha usato anticorpi monoclonali da duemila dollari a dose.
Per una strana coincidenza abbiamo visto che vip straricchi e cumenda (anche nostrani), grassi di denaro, abbiano avuto il COVID e, dopo ricoveri in cliniche a cinque stelle, l’abbiano superato come un normale raffreddore, anche se dicono che lo spavento è stato tanto. Forse a soffrire sarà stato il loro portafogli non tanto la salute. Anticorpi? Terapie sperimentali? Con quanti zero si scrive la guarigione?Israele sarà il primo paese al mondo a completare la vaccinazione. Perché sono in pochi? No. Hanno semplicemente pagato le dosi di vaccino il doppio di ogni altro paese al mondo.
Nonno Biden, neo presidente degli USA, appena eletto ha tirato le orecchie alla Pfizer. Risultato? L’America sborsa i dollari, l’America deve essere vaccinata per prima. E l’Europa? Che se la sfanghino. Come dicono a Milano, contano i danè…
Boris Johnson il Pallido, premier di una Gran Bretegna in piena confusione post-Brexit, pare abbia dirottato, a suon di sterline, le dosi di vaccino destinate a Paesi Europei. Abbiamo così capito che la Brexit ha un’unica ragione di esistere: fregare i babbioni Paesi Europei.
L’unica cosa seria non si è fatta: imporre ai laboratori di ricerca di condividere il brevetto o concedere la licenza di produzione agli altri produttori di farmaci e così intensificare la produzione anche a scopi umanitari.
Altro timore fondatissimo: le industrie farmaceutiche (sotto la bandiera del denaro) potrebbero replicare in un prossimo futuro la vicenda COVID e creare (sì lo dico e me ne assumo la responsabilità) un altro vettore di pandemia (virus, supervirus, coronavirus, etc…) per fare altri dollari a spese dell’umanità. Senza scrupoli e con avidità.
Vergogna. L’ho detto all’inizio e lo ripeto.
Il denaro è lo sterco del diavolo. Nulla di più, nulla di meno. Spero che in quella merda ci affoghino.
La prossima guerra non sarà per il petrolio o per l’acqua.
Sarà per la sopravvivenza.
E l’apocalisse non viaggerà nelle testate dei missili. Ma in una fialetta a settanta gradi sottozero.
By Michele

lunedì 4 gennaio 2021

MAFIA ED ODIUM FIDEI: LE RAGIONI DEL MARTIRIO DI ROSARIO LIVATINO NEL SAGGIO “NESSUN UOMO E' LUCE A SE STESSO ”

 


Papa Francesco in data 21/12/2020 ha autorizzato la Congregazione delle cause dei Santi a promulgare il  Decreto riguardante, fra gli altri, il martirio del Servo di Dio Rosario Angelo Livatino, Fedele Laico, nato il 3 ottobre 1952 a Canicattì (Italia) e ucciso, in odio alla Fede, sulla strada che conduce da Canicattì ad Agrigento (Italia), il 21 settembre 1990.
È giunto, così, al termine il processo canonico per la beatificazione del giovane magistrato agrigentino.
È stata grande l’emozione per chi, come me, si è occupato di analizzare i meccanismi e le dinamiche che avevano condotto all’uccisione di Rosario Livatino da parte della criminalità organizzata.
Già, dopo i primi colloqui nel 2019 con il Card. Montenegro, allorché intrapresi il cammino di studio, mi sono reso conto dell’avversione che contrapponeva l’organizzazione mafiosa ai valori cristiani, che Livatino professava in modo continuo, ininterrotto, silenzioso, facendo di se stesso e del suo lavoro un’autentica e cristallina testimonianza alla Fede.
L’odium fidei che accomuna i primi martiri cristiani di ieri alla figura di Rosario Livatino oggi assume forme e sfumature diverse, che sono state raccolte e fatte proprie dal Magistero della Chiesa, a partire dal Concilio Vaticano II, per proseguire con il pontificato di Giovanni Paolo II e sino ad arrivare a Papa Francesco.
Non a caso, sull’uccisione di Livatino i “falsi” moventi e i depistaggi non hanno retto al vaglio processuale: è stato un assassinio perpetrato per motivi di odio verso un testimone di Cristo, per una endemica avversione della mafia a quei valori di solidarietà, giustizia e amore per il prossimo che Livatino incarnava, uniti solidamente dal cemento della Fede.
Bene riporta il documento della Congregazione che “
la motivazione che spinse i gruppi mafiosi di Palma di Montechiaro e Canicattì a colpire il Servo di Dio fu la sua nota dirittura morale per quanto riguarda l’esercizio della giustizia, radicata nella fede. Dai persecutori, il Servo di Dio era ritenuto inavvicinabile, irriducibile a tentativi di corruzione proprio a motivo del suo essere cattolico praticante. Dalle testimonianze, anche del mandante dell’omicidio, e dai documenti processuali, emerge che l’avversione nei suoi confronti era inequivocabilmente riconducibile all’odium fidei. Inizialmente, i mandanti avevano pianificato l’agguato dinanzi alla chiesa in cui quotidianamente il Magistrato faceva la visita al Santissimo Sacramento
.”
La grande dedizione al lavoro in Livatino non è mai stata disgiunta dall’afflato verso il prossimo, dal rispetto che egli usava nei confronti degli altri, di tutti gli altri. Per Livatino, rendere giustizia si traduceva in un atto di fede, di “dedizione a Dio”. Ogni giorno, sub tutela Dei, senza bisogno di clamori o di esibizioni mediatiche.
All’atto della morte pochi conoscevano veramente chi fosse Livatino, solo i più stretti collaboratori, fra i quali mi piace ricordare il menfitano d’adozione, Maresciallo Maggiore Giuliano Guazzelli, che si dedicò alle indagini con una dedizione tale da non arretrare, anche lui, di fronte all’estremo sacrificio.
L’integrità della fede in Livatino è stata assoluta, senza compromessi, tanto da muovere all’odio chi lo ha ucciso, senza un movente concreto se non quello dell’avversione per ciò che egli rappresentava e viveva.
Nell’analisi del saggio, che ho voluto rafforzare con riflessioni sinottiche relative ad approfondimenti criminologici, risalta proprio la dicotomia tra il sistema ideologico mafioso e la dottrina cristiana: avversione che in concreto ha motivato l’assassinio di Rosario Livatino. Una dicotomia che la Congregazione delle cause dei Santi ha condiviso e fatto propria nella beatificazione del giovane magistrato canicattinese.
Sono particolarmente contento che il martirio in odium fidei, che ho voluto fortemente come sottotitolo del saggio, abbia finalmente trovato ingresso nella vicenda umana, tragica ed esaltante, di Rosario Livatino il cui cammino di santità è destinato a perdurare, come esempio fulgido di Fede, nella storia della Chiesa agrigentina.
By Michele Barbera

domenica 3 gennaio 2021

2020: UN ANNO DA CANCELLARE?

 


Sono in molti a chiederselo. Al di là degli stupidi oroscopi e delle profezie a posteriori, è stato un anno contraddistinto da una pandemia che rimarrà (quella sì) negli annali della storia. Rimarrà ancora di più impressa perché legata – nel suo espandersi – alla modalità di contagio, estrema: il semplice contatto sociale, lo stare insieme, il viaggiare, la libertà di poter godere dei momenti di socialità, comunque espressa.
Il tempo recente ha dimostrato che il bisogno di stare insieme e di vivere la socialità è stato più forte del virus. È questa esigenza, che non è facile bollare come semplice trasgressione, non è lo scellerato negazionismo che ha condotto molti a gridare al complotto o a visionari dietrologismi.
I contagi, dopo il rallentamento estivo, sono riesplosi come le previsioni scientifiche più accorte, severe e, per questo più snobbate e criticate, prevedevano.
Non è stata solo una questione di errori umani o di comportamenti superficiali. È pesata l’assenza di libertà, di volere vivere con gli altri, di potere esternare e partecipare i nostri sentimenti, di vivere assieme. E anche l’illusione sciocca che tutto fosse finito.
La lezione è stata dura. Decine di migliaia di morti solo in Italia non sono bastati a sfamare questo virus diabolico che ci ha avviluppato l’esistenza e messo a nudo tutta la nostra debolezza.
Rimane ancora a tutt’oggi la paura, il timore, ma anche la speranza.
È ovvio che non basta cambiare la data del calendario per sentirci tranquilli o esorcizzare la pandemia. Ma neanche avere il terrore che tutto questo duri per sempre.
La storia umana, purtroppo, è episodicamente legata a eventi infausti, talvolta più terribili di questo coronavirus. Se c’è una cosa che l’evoluzione dell’umanità ha insegnato è quella che l’uomo ha incredibili capacità di adattamento e di resilienza.
Dobbiamo essere rispettosi della vita, propria ed altrui, e rimanere solidali. E, sopratutto, rispettare le regole. Questo significa fare tutto il possibile per arginare le conseguenze negative del virus. Perché ancora oggi sgomenta il dover conteggiare centinaia di morti ogni giorno solo in Italia.
Per questo l’anno appena trascorso merita, anzi dovrà essere ricordato. E non semplicemente come monito, ma come esperienza da cui trarre un grande insegnamento per tutta l’umanità.
I vaccini non sono solo una speranza, ma una concreta realtà scientifica che merita fiducia, pur con tutti i suoi errori e compromessi. Ritengo immotivato ed isterico il rifiuto di coloro che rifiutano a priori il vaccino solo per timore di conseguenze visionarie. Basta rileggere la storia dell’umanità per comprendere che i vaccini sono stati la soluzione a malattie funeste e devastanti.
Non basta sperare in un miracolo divino, ma anche sapere cogliere l’opportunità ed i mezzi che ci vengono offerti.
Di una cosa sono sicuro: non so quando finirà, ma so che finirà. E questo dipenderà anche da noi.
By Michele