Papa Francesco in data 21/12/2020 ha autorizzato la Congregazione delle
cause dei Santi a promulgare il Decreto
riguardante, fra gli altri, il martirio del Servo di Dio Rosario Angelo
Livatino, Fedele Laico, nato il 3 ottobre 1952 a Canicattì (Italia) e ucciso,
in odio alla Fede, sulla strada che conduce da Canicattì ad Agrigento (Italia),
il 21 settembre 1990.
È giunto, così, al termine il processo canonico per la beatificazione del giovane magistrato agrigentino.
È stata grande l’emozione per chi, come me, si è occupato di analizzare i meccanismi e le dinamiche che avevano condotto all’uccisione di Rosario Livatino da parte della criminalità organizzata.
Già, dopo i primi colloqui nel 2019 con il Card. Montenegro, allorché intrapresi il cammino di studio, mi sono reso conto dell’avversione che contrapponeva l’organizzazione mafiosa ai valori cristiani, che Livatino professava in modo continuo, ininterrotto, silenzioso, facendo di se stesso e del suo lavoro un’autentica e cristallina testimonianza alla Fede.
L’odium fidei che accomuna i primi martiri cristiani di ieri alla figura di Rosario Livatino oggi assume forme e sfumature diverse, che sono state raccolte e fatte proprie dal Magistero della Chiesa, a partire dal Concilio Vaticano II, per proseguire con il pontificato di Giovanni Paolo II e sino ad arrivare a Papa Francesco.
Non a caso, sull’uccisione di Livatino i “falsi” moventi e i depistaggi non hanno retto al vaglio processuale: è stato un assassinio perpetrato per motivi di odio verso un testimone di Cristo, per una endemica avversione della mafia a quei valori di solidarietà, giustizia e amore per il prossimo che Livatino incarnava, uniti solidamente dal cemento della Fede.
Bene riporta il documento della Congregazione che “la motivazione che spinse i gruppi mafiosi di Palma di Montechiaro e Canicattì a colpire il Servo di Dio fu la sua nota dirittura morale per quanto riguarda l’esercizio della giustizia, radicata nella fede. Dai persecutori, il Servo di Dio era ritenuto inavvicinabile, irriducibile a tentativi di corruzione proprio a motivo del suo essere cattolico praticante. Dalle testimonianze, anche del mandante dell’omicidio, e dai documenti processuali, emerge che l’avversione nei suoi confronti era inequivocabilmente riconducibile all’odium fidei. Inizialmente, i mandanti avevano pianificato l’agguato dinanzi alla chiesa in cui quotidianamente il Magistrato faceva la visita al Santissimo Sacramento.”
La grande dedizione al lavoro in Livatino non è mai stata disgiunta dall’afflato verso il prossimo, dal rispetto che egli usava nei confronti degli altri, di tutti gli altri. Per Livatino, rendere giustizia si traduceva in un atto di fede, di “dedizione a Dio”. Ogni giorno, sub tutela Dei, senza bisogno di clamori o di esibizioni mediatiche.
All’atto della morte pochi conoscevano veramente chi fosse Livatino, solo i più stretti collaboratori, fra i quali mi piace ricordare il menfitano d’adozione, Maresciallo Maggiore Giuliano Guazzelli, che si dedicò alle indagini con una dedizione tale da non arretrare, anche lui, di fronte all’estremo sacrificio.
L’integrità della fede in Livatino è stata assoluta, senza compromessi, tanto da muovere all’odio chi lo ha ucciso, senza un movente concreto se non quello dell’avversione per ciò che egli rappresentava e viveva.
Nell’analisi del saggio, che ho voluto rafforzare con riflessioni sinottiche relative ad approfondimenti criminologici, risalta proprio la dicotomia tra il sistema ideologico mafioso e la dottrina cristiana: avversione che in concreto ha motivato l’assassinio di Rosario Livatino. Una dicotomia che la Congregazione delle cause dei Santi ha condiviso e fatto propria nella beatificazione del giovane magistrato canicattinese.
Sono particolarmente contento che il martirio in odium fidei, che ho voluto fortemente come sottotitolo del saggio, abbia finalmente trovato ingresso nella vicenda umana, tragica ed esaltante, di Rosario Livatino il cui cammino di santità è destinato a perdurare, come esempio fulgido di Fede, nella storia della Chiesa agrigentina.
By Michele Barbera
È giunto, così, al termine il processo canonico per la beatificazione del giovane magistrato agrigentino.
È stata grande l’emozione per chi, come me, si è occupato di analizzare i meccanismi e le dinamiche che avevano condotto all’uccisione di Rosario Livatino da parte della criminalità organizzata.
Già, dopo i primi colloqui nel 2019 con il Card. Montenegro, allorché intrapresi il cammino di studio, mi sono reso conto dell’avversione che contrapponeva l’organizzazione mafiosa ai valori cristiani, che Livatino professava in modo continuo, ininterrotto, silenzioso, facendo di se stesso e del suo lavoro un’autentica e cristallina testimonianza alla Fede.
L’odium fidei che accomuna i primi martiri cristiani di ieri alla figura di Rosario Livatino oggi assume forme e sfumature diverse, che sono state raccolte e fatte proprie dal Magistero della Chiesa, a partire dal Concilio Vaticano II, per proseguire con il pontificato di Giovanni Paolo II e sino ad arrivare a Papa Francesco.
Non a caso, sull’uccisione di Livatino i “falsi” moventi e i depistaggi non hanno retto al vaglio processuale: è stato un assassinio perpetrato per motivi di odio verso un testimone di Cristo, per una endemica avversione della mafia a quei valori di solidarietà, giustizia e amore per il prossimo che Livatino incarnava, uniti solidamente dal cemento della Fede.
Bene riporta il documento della Congregazione che “la motivazione che spinse i gruppi mafiosi di Palma di Montechiaro e Canicattì a colpire il Servo di Dio fu la sua nota dirittura morale per quanto riguarda l’esercizio della giustizia, radicata nella fede. Dai persecutori, il Servo di Dio era ritenuto inavvicinabile, irriducibile a tentativi di corruzione proprio a motivo del suo essere cattolico praticante. Dalle testimonianze, anche del mandante dell’omicidio, e dai documenti processuali, emerge che l’avversione nei suoi confronti era inequivocabilmente riconducibile all’odium fidei. Inizialmente, i mandanti avevano pianificato l’agguato dinanzi alla chiesa in cui quotidianamente il Magistrato faceva la visita al Santissimo Sacramento.”
La grande dedizione al lavoro in Livatino non è mai stata disgiunta dall’afflato verso il prossimo, dal rispetto che egli usava nei confronti degli altri, di tutti gli altri. Per Livatino, rendere giustizia si traduceva in un atto di fede, di “dedizione a Dio”. Ogni giorno, sub tutela Dei, senza bisogno di clamori o di esibizioni mediatiche.
All’atto della morte pochi conoscevano veramente chi fosse Livatino, solo i più stretti collaboratori, fra i quali mi piace ricordare il menfitano d’adozione, Maresciallo Maggiore Giuliano Guazzelli, che si dedicò alle indagini con una dedizione tale da non arretrare, anche lui, di fronte all’estremo sacrificio.
L’integrità della fede in Livatino è stata assoluta, senza compromessi, tanto da muovere all’odio chi lo ha ucciso, senza un movente concreto se non quello dell’avversione per ciò che egli rappresentava e viveva.
Nell’analisi del saggio, che ho voluto rafforzare con riflessioni sinottiche relative ad approfondimenti criminologici, risalta proprio la dicotomia tra il sistema ideologico mafioso e la dottrina cristiana: avversione che in concreto ha motivato l’assassinio di Rosario Livatino. Una dicotomia che la Congregazione delle cause dei Santi ha condiviso e fatto propria nella beatificazione del giovane magistrato canicattinese.
Sono particolarmente contento che il martirio in odium fidei, che ho voluto fortemente come sottotitolo del saggio, abbia finalmente trovato ingresso nella vicenda umana, tragica ed esaltante, di Rosario Livatino il cui cammino di santità è destinato a perdurare, come esempio fulgido di Fede, nella storia della Chiesa agrigentina.
By Michele Barbera
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