di Pina D’Alatri
Un testo intenso di grande spessore morale, ricco di pathos, cosparso del sale della saggezza, illuminato dalla “Parola” di Cristo che risuona in eterno (“Vi mando come pecore in mezzo ai lupi”), la recente opera dello scrittore e avvocato Michele Barbera (“Nessun uomo è luce a se stesso”, Il martirio di Rosario Angelo Livatino in odium fidei et iustitiae, Gianmarco Aulino Editore, Sciacca 2020 pagg. 142).
Michele Barbera, noto avvocato e scrittore poliedrico di Menfi, appassionato studioso di filosofia e di teologia, ripercorre in questo saggio la vicenda umana del giudice-ragazzino, Rosario Angelo Livatino, ucciso barbaramente il 21 Settembre del 1990, mentre si recava negli uffici del Tribunale di Agrigento, da quattro sicari assoldati dalla “Stidda” (associazione mafiosa agrigentina). Era tanta la sua “purezza morale” che, temendo per la sua scorta, evitava di farsi accompagnare ed utilizzava la propria autovettura per gli spostamenti. Sapeva certamente di essere nel mirino ma, da uomo generoso ed integerrimo, non credeva di essere tanto inviso da poter essere ucciso o seppure lo supponeva, non voleva che altri rischiassero per lui. Allorchè la sua Ford Fiesta amaranto viene speronata dall’auto dei suoi carnefici, egli tenta la fuga a piedi ma viene martirizzato dai colpi di pistola e finito, quando ormai è agonizzante, da un settimo proiettile mirato alla testa. Un’esecuzione in piena regola, Rosario si accascia e ormai in punto di morte ha la forza di chiedere: ”Cosa vi ho fatto picciotti?”.
In questa domanda, risulta palese l’integrità morale dell’uomo di giustizia che non può supporre un tale odio nei suoi confronti perché egli ha operato sempre per il bene dello stato, punendo la colpa nel colpevole, senza infierire. Gaetano Puzzangaro, il killer ferale, interrogato sul movente dell’omicidio, risponde, con agghiacciante spavalderia: ”Io non sapevo nemmeno chi fosse Rosario Livatino. Ho saputo di lui poco prima della sua uccisione”. Un abisso spaventoso che evidenzia il vuoto morale e spirituale di un’umanità perversa, un settimo proiettile che assume un valore apotropaico.
I delinquenti si rendono conto che, ormai, il giudice già al sesto colpo è in agonia, ma il settimo colpo diventa il sigillo di un’azione nefanda tale da dare un forte segnale a tutti e da preannunciare la pena della morte a chi oserà opporsi al “basamento” mafioso. E’ un segnale che tutti gli oppositori della mafia debbono cogliere. In realtà Livatino non è inviso, solo, alla mafia ma anche a molti politici locali e nazionali. Egli è un uomo di adamantina purezza, è un giustiziere saggio che crede nel valore catartico della pena, addirittura è capace di portare personalmente il mandato di scarcerazione ad un recluso perché non ci siano ritardi. Egli è sempre alla ricerca di una verità assoluta che determini una giusta pena.
La funzione del magistrato, per lui, è quella di “giudicare con umiltà e di non dimenticare di avere davanti a sé un altro se stesso, anche se colpevole ma pur sempre titolare di diritti”. Livatino, assumendo un impegno spirituale nell’amministrare la giustizia, diviene garante della giustizia umana sulla terra, intesa come propaggine divina. Proprio per questo egli subisce un effetto “Lucifero” perché il male si scatena contro di lui che, nell’illuminazione divina, ritrova la propria essenza di uomo. Deve, quindi, essere eliminato come un cinghiale impazzito: muore l’eroe, l’uomo puro; di contro, trionfa il boss mafioso che tende a ricoprire un ruolo divino nel dispensare benefici e punizioni, elevando al potere ogni suo protetto.
Chiesa e mafia: i mafiosi uccidono, “in odium fidei”, chiunque ritengano loro avversario. Ne è un esempio Padre Pino Puglisi che viene ucciso ”perché annuncia il Vangelo che è fede, giustizia, amore, pace”. All’opposto, il boss mafioso vuole sostituirsi a Dio con atti di superbia, manipolando i messaggi di amore, umiltà e perdono. Di contro, Livatino è caritatevole con tutti, anche con i colpevoli, ritenendo giusto punirli ma senza mortificare la loro umanità deviata. In realtà per lui la “correzione è più importante della pena”, un essere deviante può essere corretto, solo, con una pena adeguata alla colpa. La pena non deve però mortificare il condannato, abbrutendolo ma deve indurlo alla riflessione, proprio con l’espiazione della medesima. Il mafioso è giustiziere, in nome di un dio vendicatore implacabile che egli stesso incarna, una sorta di Anticristo che spazza via tutti coloro che sono testimoni della fede cristiana. La Chiesa ha i propri libri sacri, il mafioso ha il proprio codice illegale e blasfemo ed i suoi operatori sono “operai del maligno”.
Papa Francesco bolla i mafiosi come “scomunicati” e quindi Livatino è il più grande avversario della mafia perché “apostolo della fede in Dio” e perché “esercita la legge umana e segue la fede cristiana”. Egli è un esempio per tutti coloro che operano nel campo del diritto: per la coerenza tra la sua fede ed il suo impegno di lavoro e per l’attualità delle sue riflessioni. Nella società “liquida” in cui dominano il consumismo, l’effimero ed il mutevole, Livatino riteneva fondamentale la funzione del giudice, fissandone la deontologia. Dopo un periodo di crisi a causa di delusioni nell’ambiente giudiziario, egli aveva recuperato un po’ di fiducia ma da lì a poco sarebbe stato barbaramente ucciso ”in odium fidei” come Monsignor Romero e Padre Pino Puglisi, martiri anch’essi per la stessa motivazione. San Giovanni Paolo II ha dato particolare lustro alla figura del “Giudice Ragazzino”, definendolo martire della giustizia ed indirettamente della fede. Un percorso luminoso che l’avvocato Michele Barbera ha ben saputo illustrare, suscitando profonde emozioni nel lettore.
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