Fatti, idee e riflessioni su Cultura, Cronaca e Società. "Se un uomo non è disposto a correre qualche rischio per le sue idee, o le sue idee non valgono nulla o non vale niente lui” (E. Pound) "Un vincitore è un sognatore che non si è mai arreso" (N. Mandela)
domenica 5 dicembre 2021
A RISCHIO CROLLO LA TORRE CORSARA DI PORTO PALO DI MENFI: COMINCIA IL BALLETTO (INUTILE) DELLE COMPETENZE
venerdì 3 dicembre 2021
FACEBOOK E GLI IMBECILLI DI UMBERTO ECO
Tuttavia, non sono mai stato d’accordo sulla sua nota affermazione del 2015 per la quale i social , che pure consentono alle persone di restare in contatto fra loro, danno la parola a “legioni di imbecilli”.
A distanza di anni, morto Eco, le sue parole risultano ancora di più errate.
Questo non perché siano venuti meno gli “imbecilli” o gli ignoranti o i visionari, ma perché siamo sicuri che “zittirli” sia la cosa più giusta?
Quello che mi angoscia, infatti, è ben altro.
La libertà di espressione sta diventando una specie in via di estinzione. E non mi riferisco alla boiata dell’Unione Europea che era giunta (santi numi, se non è follia ed imbecillità questa!) a proibire di dire “Natale” e “Maria”, ma ad una sottile strategia mass-mediatica che, anche attraverso i social (o soprattutto), comprime in modo crescente la libertà di espressione del “dissidente” e non solo quando si tratta di insulti ed improperi.
La televisione, i giornali (quei pochi che sono sopravvissuti), gli stessi social, veicolano informazioni in modo sempre più controllato e plagiato, orientano gusti, tendenze e scelte della gente.
A nulla serve che le Autorità garanti della concorrenza abbiano sempre fascicoli aperti e sfornino multe milionarie alle multinazionali del web, colpevoli di controllare a piacimento le ricerche degli ignari utenti (imbecilli pure loro?). La verità è che dietro questi “orientamenti” ed influenze si nasconde una sottile ed impalpabile censura, un bavaglio virtuale che, a seconda dei temi, diventa via via più pressante.
A tutti sarà capitato di fare una ricerca sul web di un determinato oggetto e subito dopo, qualsiasi sia la pagina aperta, vi compariranno – come per magia - finestre pubblicitarie ed informative su quel bene. Come se vi avessero letto nel cervello. Ma sappiamo che non è così.
Per cercare opinioni diverse da quelle “dominanti” dovete fare ricerche trasversali, impegnarvi su siti poco conosciuti ed anche lì troverete sempre la pubblicità e le informazioni che il Grande Fratello del web ci propina senza nessun rispetto per la nostra libertà di scelta e di pensiero.
Così come a volte capita di essere “bloccati” o sospesi o vedersi cancellata una pagina perché l’insondabile Entità del web ha decretato che quello che è stato scritto o postato non era “internettianamnte” corretto o ha violato chissà quale “norma” di condotta.
Ecco il pericolo: siamo censurati senza rendercene conto, siamo schiavizzati nelle nostre scelte e razzoliamo come polli nel cortile ben chiuso che l’Entità ha prescelto per noi. Viviamo in una prigione virtuale senza che sappiamo neanche chi siano i nostri carcerieri.
Questo è lo scenario, che ci piaccia o no. A cui pochi hanno la forza e la voglia di ribellarsi.
Allora, caro Umberto Eco, avevi torto. Viva gli imbecilli, anche se sbagliano o esprimono in modo sgrammaticato la loro opinione, viva chi dissente dal “pensiero dominante” e ci trascina nella sua polemica, che ravviva la discussione e la riflessione.
La libertà di espressione implica certamente un pericolo, ma credimi caro Umberto, il pericolo è di gran lunga inferiore a quello di rimanere chiusi nella gabbia del conformismo. Anche se all’ultima moda e griffato.
Del resto, che gli imbecilli siano tali è essa stessa una opinione. Del tutto soggettiva.
By Michele Barbera
lunedì 15 novembre 2021
I BAMBINI POVERI D’ITALIA
Fanno parte del popolo degli invisibili, e non sono semplicemente figli di immigrati, clandestini o orfani sfortunati.
Sono figli di una Italia impazzita che in dieci anni di politica insensata ha triplicato il numero dei bambini poveri. Incoraggiando il calo demografico. Ora sono, secondo le stime, 1.300.000. Proprio così.
Il pubblico disinteresse per l’infanzia, l’assoluta assenza di politiche di concreto e reale sostegno ai nuclei familiari con più figli, una demagogia spinta sull’orlo di una crisi di nervi ha prodotto questo risultato.
Il bello è che nessuno si sente in colpa.
Si parla di politiche ambientali, di diritti delle minoranze “di genere”, si battaglia per vaccini di regime, ma nessuno parla di questo fango in cui lentamente stiamo sprofondando.
Il futuro di una nazione non è semplicemente nella tutela delle risorse naturali, né nel rientro del debito pubblico.
Il futuro di una nazione sono i giovani e prima di loro i bambini.
L’attenzione alle famiglie con figli è stata disastrosa. Si disincentiva la procreazione, si abbandonano a se stesse le madri lavoratrici che spesso si debbono super-impegnare e fare acrobazie su due fronti: la famiglia ed il lavoro. “Figli non ne vuole fare più nessuno” è il mantra di una società alla deriva.
Le famiglie hanno perso oggi la bussola della loro identità e funzione sociale.
Troppo spesso ci dimentichiamo del ruolo fondamentale che ha la famiglia nella società, troppo spesso genitori egoistici (di qualsiasi livello economico) antepongono i loro interessi ai bisogni dei figli, trascurati, deviati, se non abbandonati a se stessi. Sacrificati sull’altare società consumistica: i figli costano, meglio farsi la fuoriserie o la crociera esotica.
Neppure la scuola è in grado di sopperire alla funzione educativa essenziale che deve implementare quella della famiglia. Gli incontri genitori-docenti sono guerre sino all’ultimo voto, dove ogni critica del docente di turno viene bollata come abuso della funzione didattica e volano minacce se non viene assicurata la promozione a pieni voti.
Per non parlare poi dei servizi sociali, spesso inutili a se stessi, se non deviati e corrotti che, anziché sostenere le famiglie ed i bambini, puntano alla disgregazione, al disadattamento, alla messa sul ricco mercato dell’adozione di carne fresca ed appetibile. Colpa dei genitori bollati come “inadatti” o incapaci.
Vengono sbandierati Ministeri della famiglia, Assessorati per la solidarietà sociale, ma, in concreto, nell’assoluto deserto di valori sociali e familiari, prendono piede, per chi se le può permettere, le scuole di “miss-ballerine-cantanti” o quelle di “calciatori-modelli”.
I bambini, per i quali l’esempio vale più di mille parole, inseguono sogni di campioni sportivi o di attricette e cantanti sulla falsariga di influencer svestite e pronte a vendersi all’ultimo like.
Lo studio, la formazione, la cultura diventano scomodi optional, inutili pesi che gravano su cervelli aggiogati a Instagram, Tik tok e compagnia bella.
È un disastro sociale che svilupperà i suoi effetti collaterali nel prossimi anni: vi fareste mai curare una caviglia slogata da un Ronaldo qualsiasi? O affidereste il progetto di una casa alla Ferragni?
Internet ha sviluppato la capacità predatoria di individui senza scrupoli che speculano sulle voglie e inducono desideri nei ragazzi i cui genitori, per una malevola pace familiare, contrabbandano l’ultimo modello di smartphone o di gadget firmato con il silenzio deviato di bambini e ragazzi. Ma questo non può acquietare le loro coscienze.
Occorre una vera rivoluzione che riproponga il modello famiglia come laboratorio sociale, che intervenga non con inutili sussidi a “perdere”, ma con finanziamenti di scopo per il sostegno delle nascite ed il progresso negli studi e nella società del fanciullo.
Fin dal 1924, all’indomani del disastro della Prima Guerra Mondiale, le Nazioni Unite adottarono una “Dichiarazione universale dei diritti del fanciullo”, poi integrata nel 1959. Pochi articoli, densi di contenuto, che dovrebbero indirizzare politiche attente allo sviluppo individuale del bambino ed a tutelarlo in ogni sua esigenza. La Dichiarazione pone il divieto di sfruttamento, il diritto di ricevere un’educazione adeguata, di assicurare la libertà e la crescita dei fanciulli. Pochi articoli, che sono rimasti lettera morta anche nei cosiddetti paesi civili, ammorbati da una politica fatta di molte parole e pochi fatti.
Ma si sa, i bambini non votano e quando protestano meglio zittirli con la play station che trascorrere un pomeriggio con loro.
Vergogna.
By Michele Barbera
giovedì 16 settembre 2021
UNA MARINA DI LIBRI: UN'OCCASIONE DI CULTURA, INCONTRI E FORMAZIONE
Esattamente il contrario di quello che dovrebbero essere questo tipo di manifestazioni.
Una Marina di Libri, invece, ha un nutrito e coraggioso programma, una circuitazione che sa coinvolgere realtà editoriali locali ed indipendenti, un catalogo di incontri che ha saputo integrare anche spazi dedicati a opere di riflessione e di formazione. Per questo ho aderito con entusiasmo all'invito di partecipare a questa manifestazione. Sarà l'occasione, ancora una volta, di dialogare con il pubblico sulla figura di Rosario Angelo Livatino e sugli eventi che lo hanno condotto all'epilogo della sua esistenza in quel mattino di settembre di trent'anni fa.
Dove è finita una vita è iniziata una storia nuova, un cammino che ha coinvolto la gente di una provincia martoriata dal crimine e che si è raccolta intorno alla figura di Rosario Livatino, un riscatto sociale che è stato consacrato da Papa Francesco, che ha additato Rosario come modello non soltanto per gli operatori del diritto, ma anche ai giovani ed a tutti i cristiani.
Questo saggio, nato per supportare le ragioni del martirio in odium fidei ed affidato alla Postulazione retta da Mons. Bertolone, pubblicato ancora prima che la Congregazione ed il Papa promulgassero i decreti di beatificazione e riconoscimento del martirio, consente di affrontare e di riflettere sulla figura di Rosario Livatino non soltanto in termini agiografici, ma ne risalta l'impegno e l'azione nel contrasto tra una Chiesa che vuole affermare i valori di fede, speranza e carità ed una mafia che abbrutisce con la sua violenza aberrante una terra desiderosa ed affamata di giustizia.
Debbo ringraziare il giornalista, critico e studioso Enzo Gallo, dell'Associazione Amici di Rosario Livatino, che ci accompagnerà in questo incontro che vuole, sopratutto, rendere testimonianza ad un figlio di questa nostra Sicilia, oggi vivo nella memoria della Chiesa universale.
Un ringraziamento di cuore alla Organizzazione di Una Marina di Libri ed un Augurio di longevo e proficuo impegno a difesa e promozione della cultura siciliana.
By Michele Barbera
venerdì 9 luglio 2021
GIANMARIO ROVERARO: UNA RIFLESSIONE SUL SUO SEQUESTRO ED UCCISIONE
Tra le pieghe della cronaca estiva di quell’anno, in una dimensione tragicamente umana, accadeva anche qualcos’altro: il ventuno luglio veniva ritrovato il corpo martoriato di Gianmario Roveraro, conosciuto per il suo passato di campione di salto in alto ed economista di grandissimo talento.
Gianmario era stato ucciso l’otto luglio, dopo un sequestro durato pochi giorni. In modo barbaro, brutale, odioso: il suo assassino, dopo avergli sparato a bruciapelo, in un impeto bestiale, aveva infierito sul corpo, smembrandolo ed abbandonando i resti nella campagna di Parma.
L’esecuzione efferata di Gianmario lasciò scossi tutti coloro che lo avevano conosciuto e che erano rimasti già sgomenti dal sequestro avvenuto a Milano qualche giorno prima, mentre stava ritornando a casa a piedi dalla moglie e dai tre figli.
Gianmario era nato nel 1936 ad Albenga, nella riviera ligure, terra con cui mantenne sempre un affettuoso legame. La sua vita è stata segnata da un profondo senso del dovere, da un incolmabile attaccamento al lavoro ed alla famiglia, da un esercizio entusiasta delle fede cristiana, a cui rendeva testimonianza ogni giorno, senza clamori o ostentazione, con il proprio lavoro e con la dedizione agli altri.
Aveva iniziato presto una carriera atletica, quella del salto in alto, che lo portò a conquistare ben tre campionati italiani ed a partecipare pure ad una Olimpiade. Contemporaneamente, si era impegnato tantissimo negli studi per conseguire la laurea in economia con un’innovativa tesi sui fondi di investimento, da lui poi introdotti in Italia e destinati a rivoluzionare il mercato del risparmio.
Economista talentuoso e finanziere riservato, competente e brillante, per i suoi valori cristiani e di aperta solidarietà verso il prossimo, c'era chi lo vedeva come contrapposto a certa finanza laica. Una definizione giornalistica che gli andava stretta e che aveva smentito subito affermando che: "la finanza non è cattolica, laica o massonica, è semplicemente finanza", ribadendo, così, che il suo impegno professionale era ben lontano da dietrologie o secondi fini.
Dotato di instancabile energia, si era dedicato al volontariato, promuovendo, fra l’altro la fondazione dell’Associazione FAES, Famiglia e Scuola, e presiedendo per svariati anni la Fondazione RUI, Residenze Universitarie Internazionali, che promuove la cultura universitaria con la gestione di residenze e la concessione di borse di studio agli studenti meritevoli e disagiati economicamente. Istituzioni e che a tutt’oggi svolgono in modo qualificato le loro funzione nella preparazione delle future generazioni.
Animato da uno spirito vivace e generoso, era prodigo di attenzione verso chiunque si rivolgesse a lui, confidando nel suo impegno e nella sua attenzione. Le sue iniziative sapevano attrarre l’attenzione dei maggiori imprenditori italiani, sviluppando strategie per gli investimenti e lo sviluppo industriale.
La dedizione agli altri, la sua disponibilità, l’empatia che generava nel prossimo, erano sicuramente dei tratti personali che lo distinguevano nel mondo della finanza, spietato e cinico, corroso da interessi speculativi e da azioni spregiudicate.
Gianmario aveva dato prova di tempra forte, di sapere resistere alle insidie di quel mondo malato ed, anzi, di portare la sua luce limpida fin nei recessi più ombrosi, dove il male ed il bene si intrecciavano in trame d’interessi e di speculazioni incomprensibili ai più.
Puro e saldo nella fede cristiana, aveva aderito all’Opus Dei sin dal 1961.
Certo giornalismo bancarellaro aveva speculato su questa adesione, adombrando vanamente trame fosche all’ombra di chissà quali poteri occulti.
L’Opera di San Josemaría Escrivá per Gianmario era solo il completamento naturale della sua formazione cristiana. Lo stato di “soprannumerario”, proprio dei membri sposati, gli consentiva di vivere il suo matrimonio, la sua famiglia ed, al contempo, di appagare una profonda, rigorosa ed essenziale formazione cristiana e cattolica e con l’impegno nelle opere di volontariato e di promozione sociale.
La storia di Gianmario, la sua vicenda umana e professionale, ma soprattutto la sua testimonianza di fede meritano di essere ricordate oggi, a distanza di quindici anni, senza orpelli o falsi misteri.
Egli viveva in un'unica dimensione il suo lavoro professionale, la sua vocazione spirituale, l’elevazione e la dedizione di sé a Dio. Riservato e schivo non cercava notorietà, anche se attirava, come molti hanno testimoniato, stima e rispetto in tutti quelli che lo conoscevano.
La sua scomparsa, determinata da un odio efferato, da una dinamica criminale feroce e disumana, al di là dei processi e delle inchieste giornalistiche non può non interrogare la nostra coscienza.
Per cosa è stato ucciso realmente Gianmario Roveraro?
Per una estorsione andata a male, per un mero intento criminale?
Appare strano che l’omicida per sfuggire all’accusa di sequestro abbia preferito uccidere, attirando su di sé una pena ben maggiore.
Ancora più strano, quello che l’assassino riferisce ai magistrati il giorno dell’arresto e della macabra scoperta del corpo: “...non mi ricordo di averlo ucciso...ma sento che è morto... io non sono matto, non mi drogo, non bevo”. E subito dopo : “...è molto probabile che l’abbia ucciso io, mi sembra molto strano che l’abbia fatto a pezzi... non mi ricordo di aver sezionato il corpo...”
Eppure l’omicida, per i periti del processo, al momento del fatto era capace di intendere e volere.
Chi è stato ucciso l’otto luglio di quindici anni fa?
L’uomo, il professionista o il cristiano?
L’odio che si è scatenato contro Gianmario Roveraro era quello di un disegno criminale disperato o di un'avversione al credente, all’uomo di fede?
L’assassino, nell’interrogatorio dell’11/12/2006, dichiara che “Roveraro si è suicidato attraverso me, lui ha scatenato la mia rabbia fino ad ucciderlo e farlo a pezzi, ...mi ha convinto a fare il finto sequestro coinvolgendo i miei due migliori amici e poi ha fatto marcia indietro”.
Forse, l’unico mistero dell’uccisione di Gianmario che vale la pena di indagare, sta in queste parole. Parole deliranti, pronunciate, però, da un soggetto dichiarato capace di intendere e di volere. Capace di volere il male. Sino all’estremo.
By M. Barbera
lunedì 10 maggio 2021
LA RECENSIONE: L’OPERA ANTOLOGICA DEI POETI SICILIANI “VENT’ANNI DOPO IL DUEMILA” A CURA DI JOSÉ RUSSOTTI
Di Lorenzo Spurio
Gli studi e gli approfondimenti sulla poesia siciliana contemporanea si arricchiscono di un volume particolarmente pregevole uscito negli ultimi giorni dopo un instancabile lavoro di ricerca, studio e compilazione del poeta messinese José Russotti[1]. Il volume, Antologia di Poeti contemporanei siciliani. Vent’anni dopo il Duemila, pubblicato per i tipi di Fogghi mavvagnoti, è un tomo prezioso che si compone di trecentosessanta pagine ricche di informazioni, note biografiche, approfondimenti, commenti critici, rimandi, studi ragionati e apparati bio-bibliografici sui numerosi poeti e poetesse che ivi sono stati inseriti.
Si sa, ogni operazione antologica desta sempre attenzione e curiosità da parte dei lettori ma spesso non è scevra da opinioni contrastanti tra chi, entusiasta per la propria presenza (magari al fianco di “grandi” della letteratura, presenti anche in manuali e storie letterarie di critici eminenti) e sfiduciato e incollerito per la non inserzione, creano spesso un clima difficile da indagare.
Ruolo del
curatore è quello di completare il lavoro per come l’ha ideato senza lasciarsi
intaccare più di tanto dalle dicerie e dalle critiche che, dinanzi a
un’operazione collettiva come questa che richiama un discorso di aristocrazie e
florilegio, immancabilmente si presenta. Ce lo insegna Pier Paolo Pasolini che,
con la nota antologia di poesia dialettale uscita per i tipi di Guanda curata
con Mario dell’Arco nel 1952 diede adito a critiche furibonde sui cosiddetti
“mancati inserimenti” o le sedicenti “gravi lacune” ma anche nei confronti de Dieci condizioni poetiche (1957)
dell’anconetano Plinio Acquabona che, più che mosso dall’intenzione di creare
un’antologia vera e propria, produsse un testo polifonico – nel quale pure si
auto-inserì – includendo alcune delle voci poetiche del periodo che considerava
importanti. Anche in quel caso non mancarono critiche. Come – lo riconosco –
non ne son mancate qualche anno fa quando compilai i due corposi volumi del Convivio in versi. Mappatura democratica
della poesia marchigiana (PoetiKanten Edizioni, Sesto Fiorentino, 2016),
con l’inserimento totale di più di 280 poeti (ciascuno con nota
bio-bibliografica e un testo scelto) dalla seconda metà dell’Ottocento ad oggi.
Si sa il desiderio utopico di totalità
non può sussistere nell’imperfettibilità dell’uomo ed è umanamente impossibile
approcciarsi in maniera globale e totalizzante in relazione a un “censimento”
di questo tipo. Chiaro è che l’antologista, pur non chiarendone in maniera
diretta su carta le ragioni, dovrebbe certo lasciare intendere o motivare
quelli che sono i paradigmi che hanno condotto alla costituzione di
un’antologia in un determinato modo.
Tornando
all’operazione editoriale di José Russotti questo aspetto vien chiarito molto
bene nella nota incipitaria del poeta Mario Tamburello che, in apertura ai
tanti profili bio-bibliografici inseriti dal curatore, sostiene: «Una bella
raccolta e, come ogni opera bella, inevitabilmente incompiuta, perché accanto
ai “Grandi” e ai già selezionati, altre interessanti voci nuove sono da
scoprire nello scenario letterario di Sicilia»
(11). Credo che stia proprio in questo la ricchezza di un’antologia: nella
capacità di non dirsi mai compiuta e completa e di richiamare sempre continue
rivisitazioni, implementazioni ed aggiunte. Non solo alla luce del tempo che
passa e che, puntualmente, ci consente di prendere atto di nuovi profili
poetici che s’imprimono e di altri che s’irrobustiscono, ma anche per andare di
volta in volta a colmare – nei limiti del consentito e delle conoscenze che è
possibile raggiungere – quei “buchi” che necessitano giustamente una
trattazione, seppur approssimativa e generale, almeno un sorvolo e un richiamo.
La limitatezza e friabilità dell’antologia sta proprio in questo che, visto con
altri lenti, non può essere che un elemento di forza visto dal critico onesto,
dall’antologista premuroso e grande studioso prima di tutto come un dovere
morale nei confronti della letteratura. Russotti, dal momento che lascia ben
intendere che questo è solo il primo volume di non si sa quanti tomi – e dunque
che è un progetto in fieri – mi pare
di poter osservare che “naviga” proprio su questo tipo di ragionamento. E per
fortuna. Ben dice il poeta Tommaso Romano che, nel commento conclusivo, a
titolo riepilogativo dell’intero progetto, osserva che «Russotti [ha fatto]
scelte libere e consapevoli, [ha proposto] un suo personalissimo modo di
approccio che rimanda e invita il lettore e lo studioso ad approfondimenti
scientifici ulteriori» (355).
Un’opera
come questa, che si prefigge di raggrumare nelle pagine di un libro tanti (e
così tanto diversi) percorsi umani e letterari necessita, oltre che di tutti
questi accorgimenti critici che la dotano e la arricchiscono, di una
suddivisione degli stessi contenuti. Ecco che viene in aiuto la ripartizione (senz’altro
opinabile, ma in tal contesto utile per l’organizzazione) tra due macro-gruppi
di poeti “I Grandi di Sicilia” e “I Contemporanei di Sicilia”. Non è una
divisione netta tra morti e viventi. Tra i cosiddetti classici, il cui decesso
ha marcato un percorso di chiusura e di lettura dell’opera e, semmai, la
nascita di una critica fluente e coloro che, nell’attualità, sono impegnati in
campo poetico. Difatti troviamo nella prima sezione dei “Grandi” voci
importanti – anche a livello nazionale – quali Giuseppe Bonaviri (1924-2009),
Bartolo Cattafi (1922-1979) e Nat Scammacca (1924-2005), importante ponte tra
poesia siciliana e americana nonché esponente di spicco di un avanguardismo
poetico. Giustamente tra i “Grandi” figurano anche (tra gli altri) i poeti
Lucio Zinna (1938), Tommaso Romano (1955), Santo Calì (1918-1972) di
Linguaglossa (CT)[2], autore importante per gli
studi sul folklore della Sicilia orientale, Salvatore Di Marco (1932), poeta
dialettale ma soprattutto fine e insaziabile saggista (autore, tra l’altro, di
un pregevole saggio su Ignazio Buttitta). Notevole è il profilo del prof.
Domenico Pisana (1958) di Modica, attento studioso della poesia degli Iblei con
varie pubblicazioni, non solo quale poeta ma anche nelle vesti di teologo. Di
Pisana è inserita la pregevole lirica “Canto dal sud est”. Mia fortuna e onore
l’aver conosciuto e l’intrattenere rapporti con alcuni di essi.
La seconda
sezione del volume, “I contemporanei di Sicilia”, totalizza ben
cinquantaquattro inserimenti di poeti contemporanei siciliani che vivono nelle
varie zone dell’Isola. Inutile e troppo didascalico citarli tutti (rimando
all’indice dei nomi presente in rete); tra di essi segnalo Nino Barone (1972)
senz’altro uno dei maggiori poeti dialettali del Trapanese assieme a Marco
Scalabrino[3]
(1952); Francesco Camagna (1961) di Marsala presente con un doloroso testo, “La
strage del pane”, relativo a un tragico episodio che accadde nella centrale Via
Maqueda a Palermo in pieno secondo conflitto mondiale; le palermitane Rosa
Maria Chiarello (1959) e Francesca Luzzio (1950) di cui la seconda, oltre che
poetessa, anche fine critico letterario e giurata in vari concorsi di poesia; Pietro
Cosentino (1941) poeta e organizzatore di eventi culturali assieme a Russotti,
Emanuele Insinna (1947) con un testo evocativo e una sorta di “manifesto” per
la stessa antologia: “Cu voli puisia vegna ‘n Sicilia” (“Chi vuole poesia venga
in Sicilia”); le cantautrici Serena Lao (n.d.) e Cinzia Sciuto (n.d.),
rispettivamente palermitana e catanese; in particolare la lirica “Cancia lu ventu”
della Sciuto è di formidabile presa sul lettore, capace di trasmettere grande
fascino e di far sentire quel vento di cui parla sulla propria pelle; il
catanese Antonino Magrì (1955), poeta ma non solo, ricercatore attento di voci
poetiche locali che nel 2009 pubblicò una corposa antologia di poeti siciliani
in quattro volumi; Giuseppe Pappalardo (1945), altro cultore del dialetto
siciliano, attivo anche nel promuovere con eventi e iniziative sul territorio
l’interesse per il dialetto siciliano e la sua letteratura. Tanti altri sono i
nomi che qui trovano collocazione – mi sono limitato a citarne alcuni – ma
tanti altri li conosco di persona, li ho incontrati, ne apprezzo opere e codici
espressivi; chiaramente tra loro vi è lo stesso curatore dell’antologia – quale
promotore culturale e poeta tanto in lingua e in dialetto – ovvero José
Russotti di cui il suo Spine d’Euphorbia
(2017) ha ottenuto un ampio consenso nella critica.
Russotti
con la sua opera pone l’attenzione, con l’intenzione di allontanare lo spettro
dell’oblio, anche su autori che, per ragioni di vario tipo, non hanno avuto la
possibilità d’imporsi distintamente sulla scena letteraria o per i quali la
mancanza di iniziative atte a tenere alti i rispettivi nomi sono mancate o
rimaste disattese. Importante la riscoperta e la diffusione del già citato
Salvatore Gaglio, stimato medico oltre che poeta e drammaturgo, di Santa
Elisabetta di Agrigento venuto a mancare nel 2017. Amplissima la produzione di
Gaglio – soprattutto in dialetto – che gli valse numerosi e importanti premi e
che, grazie a Russotti e Piero Cosentino, ha visto la dedica, in termini
recenti, in un premio letterario a Malvagna (ME). L’opera di Russotti fornisce
un ampio ventaglio di possibilità di letture e di approfondimenti; le
biografie, gli interessi e le pubblicazioni dei tanti antologizzati –
soprattutto in campo critico-saggistico – sono talmente ampie e diversificate
che ciascuno – realmente – può trovarvi approdi importanti per ulteriori
ricerche, come pure sostiene il prof. Romano.
Opere come
queste ampliano la conoscenza e permettono anche il sano confronto, pur nella
loro conformazione didascalica – più consona forse all’enciclopedia che al volume
di facile utilizzo – e sono utilissime per la loro esattezza e ricchezza di
contenuti – ben lungi dalle antologie-museo – nel rendere la poesia viva e
presente tra noi, anche quella prodotta decenni ormai lontani. Non è la
finalità storiografica, quella di porre le biografie dei grandi nella teca
chiusa e dorata della memoria e i contemporanei in teche tendenzialmente aperte
nelle quali man mano si assommano materiali, lo scopo del progetto, semmai
quello di rendere viva la Sicilia, tra temi, codici, linguaggi, perplessità,
pensieri e paesaggi di ieri e di oggi affinché ne curiamo il ricordo e ne
facciamo testimonianza.
[1] Da vari anni nell’ambito dello
studio della poesia mi sento particolarmente affascinato da quella che viene
prodotta, oltre che nella mia Regione, in terra di Sicilia. Numerosi eventi
letterari nella forma soprattutto del reading poetico da me organizzati in
Sicilia a partire dal 2013, in varie parti dell’Isola, mi hanno permesso di
conoscere un gran numero di poeti e di entrare in contatto con loro. Una gran
quantità di materiali (poesie lette durante i reading) sono state raccolte in
un ampio volume collettaneo dal titolo Sicilia,
viaggio in versi (Ass. Culturale Euterpe, Jesi, 2019) da me curato che
comprende le opere degli autori che dal 2013 al 2019 hanno preso parte a eventi
letterari in Sicilia tenutisi a Palermo, Bagheria, Messina, Catania e Caltanissetta.
Necessarie, un po’ come nel volume antologico di Russotti in oggetto, due
ripartizioni all’interno del volume – in aggiunta a quella degli autori che
costituiscono la parte centrale del volume – ovvero quella degli “ospiti
speciali” dove figurano, tra gli altri, Maria Grazia Insinga, Salvatore
Mirabile, Tommaso Romano, José Russotti e Lucio Zinna e la sezione “in
memoriam” rivolta a quei poeti che ci hanno lasciato ma che vanno degnamente
ricordati. Quest’ultima sezione è composta da brevi saggi critici stilati dal
sottoscritto e dai poeti Antonino Causi, Antonino Magrì e Grazia Dottore sui
poeti Domenico Asaro (1973-2018), Antonino Bulla (1914-1991), Maria Costa
(1926-2016), Maria Ermegilda Fuxa (1913-2004), Salvatore Gaglio (1949-2017),
Alessandro Miano (1920-1994), Gaetano Zummo (n.d.-2018) e Nino Martoglio
(1870-1921). Quest’ultimo, chiaramente, fu regista e drammaturgo.
[2] Altro poeta inserito nella
sezione dei “Grandi” originario di Linguaglossa, nel Catanese, è Senzio Mezza
che lì nacque e che da anni vive a Scandicci (FI).
[3] Quest’ultimo non è contemplato
in questo primo volume dell’antologia ma mi pare, comunque, opportuno citarlo.
sabato 1 maggio 2021
LA RECENSIONE: IL SETTIMO COLPO (Catarsi di un eroe dei nostri tempi)
di Pina D’Alatri
Un testo intenso di grande spessore morale, ricco di pathos, cosparso del sale della saggezza, illuminato dalla “Parola” di Cristo che risuona in eterno (“Vi mando come pecore in mezzo ai lupi”), la recente opera dello scrittore e avvocato Michele Barbera (“Nessun uomo è luce a se stesso”, Il martirio di Rosario Angelo Livatino in odium fidei et iustitiae, Gianmarco Aulino Editore, Sciacca 2020 pagg. 142).
Michele Barbera, noto avvocato e scrittore poliedrico di Menfi, appassionato studioso di filosofia e di teologia, ripercorre in questo saggio la vicenda umana del giudice-ragazzino, Rosario Angelo Livatino, ucciso barbaramente il 21 Settembre del 1990, mentre si recava negli uffici del Tribunale di Agrigento, da quattro sicari assoldati dalla “Stidda” (associazione mafiosa agrigentina). Era tanta la sua “purezza morale” che, temendo per la sua scorta, evitava di farsi accompagnare ed utilizzava la propria autovettura per gli spostamenti. Sapeva certamente di essere nel mirino ma, da uomo generoso ed integerrimo, non credeva di essere tanto inviso da poter essere ucciso o seppure lo supponeva, non voleva che altri rischiassero per lui. Allorchè la sua Ford Fiesta amaranto viene speronata dall’auto dei suoi carnefici, egli tenta la fuga a piedi ma viene martirizzato dai colpi di pistola e finito, quando ormai è agonizzante, da un settimo proiettile mirato alla testa. Un’esecuzione in piena regola, Rosario si accascia e ormai in punto di morte ha la forza di chiedere: ”Cosa vi ho fatto picciotti?”.
In questa domanda, risulta palese l’integrità morale dell’uomo di giustizia che non può supporre un tale odio nei suoi confronti perché egli ha operato sempre per il bene dello stato, punendo la colpa nel colpevole, senza infierire. Gaetano Puzzangaro, il killer ferale, interrogato sul movente dell’omicidio, risponde, con agghiacciante spavalderia: ”Io non sapevo nemmeno chi fosse Rosario Livatino. Ho saputo di lui poco prima della sua uccisione”. Un abisso spaventoso che evidenzia il vuoto morale e spirituale di un’umanità perversa, un settimo proiettile che assume un valore apotropaico.
I delinquenti si rendono conto che, ormai, il giudice già al sesto colpo è in agonia, ma il settimo colpo diventa il sigillo di un’azione nefanda tale da dare un forte segnale a tutti e da preannunciare la pena della morte a chi oserà opporsi al “basamento” mafioso. E’ un segnale che tutti gli oppositori della mafia debbono cogliere. In realtà Livatino non è inviso, solo, alla mafia ma anche a molti politici locali e nazionali. Egli è un uomo di adamantina purezza, è un giustiziere saggio che crede nel valore catartico della pena, addirittura è capace di portare personalmente il mandato di scarcerazione ad un recluso perché non ci siano ritardi. Egli è sempre alla ricerca di una verità assoluta che determini una giusta pena.
La funzione del magistrato, per lui, è quella di “giudicare con umiltà e di non dimenticare di avere davanti a sé un altro se stesso, anche se colpevole ma pur sempre titolare di diritti”. Livatino, assumendo un impegno spirituale nell’amministrare la giustizia, diviene garante della giustizia umana sulla terra, intesa come propaggine divina. Proprio per questo egli subisce un effetto “Lucifero” perché il male si scatena contro di lui che, nell’illuminazione divina, ritrova la propria essenza di uomo. Deve, quindi, essere eliminato come un cinghiale impazzito: muore l’eroe, l’uomo puro; di contro, trionfa il boss mafioso che tende a ricoprire un ruolo divino nel dispensare benefici e punizioni, elevando al potere ogni suo protetto.
Chiesa e mafia: i mafiosi uccidono, “in odium fidei”, chiunque ritengano loro avversario. Ne è un esempio Padre Pino Puglisi che viene ucciso ”perché annuncia il Vangelo che è fede, giustizia, amore, pace”. All’opposto, il boss mafioso vuole sostituirsi a Dio con atti di superbia, manipolando i messaggi di amore, umiltà e perdono. Di contro, Livatino è caritatevole con tutti, anche con i colpevoli, ritenendo giusto punirli ma senza mortificare la loro umanità deviata. In realtà per lui la “correzione è più importante della pena”, un essere deviante può essere corretto, solo, con una pena adeguata alla colpa. La pena non deve però mortificare il condannato, abbrutendolo ma deve indurlo alla riflessione, proprio con l’espiazione della medesima. Il mafioso è giustiziere, in nome di un dio vendicatore implacabile che egli stesso incarna, una sorta di Anticristo che spazza via tutti coloro che sono testimoni della fede cristiana. La Chiesa ha i propri libri sacri, il mafioso ha il proprio codice illegale e blasfemo ed i suoi operatori sono “operai del maligno”.
Papa Francesco bolla i mafiosi come “scomunicati” e quindi Livatino è il più grande avversario della mafia perché “apostolo della fede in Dio” e perché “esercita la legge umana e segue la fede cristiana”. Egli è un esempio per tutti coloro che operano nel campo del diritto: per la coerenza tra la sua fede ed il suo impegno di lavoro e per l’attualità delle sue riflessioni. Nella società “liquida” in cui dominano il consumismo, l’effimero ed il mutevole, Livatino riteneva fondamentale la funzione del giudice, fissandone la deontologia. Dopo un periodo di crisi a causa di delusioni nell’ambiente giudiziario, egli aveva recuperato un po’ di fiducia ma da lì a poco sarebbe stato barbaramente ucciso ”in odium fidei” come Monsignor Romero e Padre Pino Puglisi, martiri anch’essi per la stessa motivazione. San Giovanni Paolo II ha dato particolare lustro alla figura del “Giudice Ragazzino”, definendolo martire della giustizia ed indirettamente della fede. Un percorso luminoso che l’avvocato Michele Barbera ha ben saputo illustrare, suscitando profonde emozioni nel lettore.
domenica 21 febbraio 2021
ATTENZIONE!!! L'ACQUA DIVENTA UN BENE PRIVATO SPECULATIVO: LA QUOTAZIONE A WALL STREET... ED IN ITALIA?
sabato 13 febbraio 2021
TUTTI ALLA CORTE DI RE DRAGHI: STREGONI, BUFFONI, CAVALIER SERVENTI, NANI E BALLERINE (E NON MANCANO I BURATTINI)
martedì 26 gennaio 2021
COVID19? UN AFFARE DA RICCHI!
Nonno Biden, neo presidente degli USA, appena eletto ha tirato le orecchie alla Pfizer. Risultato? L’America sborsa i dollari, l’America deve essere vaccinata per prima. E l’Europa? Che se la sfanghino. Come dicono a Milano, contano i danè…
L’unica cosa seria non si è fatta: imporre ai laboratori di ricerca di condividere il brevetto o concedere la licenza di produzione agli altri produttori di farmaci e così intensificare la produzione anche a scopi umanitari.
Altro timore fondatissimo: le industrie farmaceutiche (sotto la bandiera del denaro) potrebbero replicare in un prossimo futuro la vicenda COVID e creare (sì lo dico e me ne assumo la responsabilità) un altro vettore di pandemia (virus, supervirus, coronavirus, etc…) per fare altri dollari a spese dell’umanità. Senza scrupoli e con avidità.
Vergogna. L’ho detto all’inizio e lo ripeto.
Il denaro è lo sterco del diavolo. Nulla di più, nulla di meno. Spero che in quella merda ci affoghino.
La prossima guerra non sarà per il petrolio o per l’acqua.
Sarà per la sopravvivenza.
E l’apocalisse non viaggerà nelle testate dei missili. Ma in una fialetta a settanta gradi sottozero.
By Michele
lunedì 4 gennaio 2021
MAFIA ED ODIUM FIDEI: LE RAGIONI DEL MARTIRIO DI ROSARIO LIVATINO NEL SAGGIO “NESSUN UOMO E' LUCE A SE STESSO ”
È giunto, così, al termine il processo canonico per la beatificazione del giovane magistrato agrigentino.
È stata grande l’emozione per chi, come me, si è occupato di analizzare i meccanismi e le dinamiche che avevano condotto all’uccisione di Rosario Livatino da parte della criminalità organizzata.
Già, dopo i primi colloqui nel 2019 con il Card. Montenegro, allorché intrapresi il cammino di studio, mi sono reso conto dell’avversione che contrapponeva l’organizzazione mafiosa ai valori cristiani, che Livatino professava in modo continuo, ininterrotto, silenzioso, facendo di se stesso e del suo lavoro un’autentica e cristallina testimonianza alla Fede.
L’odium fidei che accomuna i primi martiri cristiani di ieri alla figura di Rosario Livatino oggi assume forme e sfumature diverse, che sono state raccolte e fatte proprie dal Magistero della Chiesa, a partire dal Concilio Vaticano II, per proseguire con il pontificato di Giovanni Paolo II e sino ad arrivare a Papa Francesco.
Non a caso, sull’uccisione di Livatino i “falsi” moventi e i depistaggi non hanno retto al vaglio processuale: è stato un assassinio perpetrato per motivi di odio verso un testimone di Cristo, per una endemica avversione della mafia a quei valori di solidarietà, giustizia e amore per il prossimo che Livatino incarnava, uniti solidamente dal cemento della Fede.
Bene riporta il documento della Congregazione che “la motivazione che spinse i gruppi mafiosi di Palma di Montechiaro e Canicattì a colpire il Servo di Dio fu la sua nota dirittura morale per quanto riguarda l’esercizio della giustizia, radicata nella fede. Dai persecutori, il Servo di Dio era ritenuto inavvicinabile, irriducibile a tentativi di corruzione proprio a motivo del suo essere cattolico praticante. Dalle testimonianze, anche del mandante dell’omicidio, e dai documenti processuali, emerge che l’avversione nei suoi confronti era inequivocabilmente riconducibile all’odium fidei. Inizialmente, i mandanti avevano pianificato l’agguato dinanzi alla chiesa in cui quotidianamente il Magistrato faceva la visita al Santissimo Sacramento.”
La grande dedizione al lavoro in Livatino non è mai stata disgiunta dall’afflato verso il prossimo, dal rispetto che egli usava nei confronti degli altri, di tutti gli altri. Per Livatino, rendere giustizia si traduceva in un atto di fede, di “dedizione a Dio”. Ogni giorno, sub tutela Dei, senza bisogno di clamori o di esibizioni mediatiche.
All’atto della morte pochi conoscevano veramente chi fosse Livatino, solo i più stretti collaboratori, fra i quali mi piace ricordare il menfitano d’adozione, Maresciallo Maggiore Giuliano Guazzelli, che si dedicò alle indagini con una dedizione tale da non arretrare, anche lui, di fronte all’estremo sacrificio.
L’integrità della fede in Livatino è stata assoluta, senza compromessi, tanto da muovere all’odio chi lo ha ucciso, senza un movente concreto se non quello dell’avversione per ciò che egli rappresentava e viveva.
Nell’analisi del saggio, che ho voluto rafforzare con riflessioni sinottiche relative ad approfondimenti criminologici, risalta proprio la dicotomia tra il sistema ideologico mafioso e la dottrina cristiana: avversione che in concreto ha motivato l’assassinio di Rosario Livatino. Una dicotomia che la Congregazione delle cause dei Santi ha condiviso e fatto propria nella beatificazione del giovane magistrato canicattinese.
Sono particolarmente contento che il martirio in odium fidei, che ho voluto fortemente come sottotitolo del saggio, abbia finalmente trovato ingresso nella vicenda umana, tragica ed esaltante, di Rosario Livatino il cui cammino di santità è destinato a perdurare, come esempio fulgido di Fede, nella storia della Chiesa agrigentina.
By Michele Barbera
domenica 3 gennaio 2021
2020: UN ANNO DA CANCELLARE?