Ogni cittadino italiano dovrebbe
conoscere la storia di Aldo Moro. In questi giorni di “candide” (
o forse dovrei dire ingenue) celebrazioni alla memoria degli eventi
di Via Fani, chissà cosa direbbe Leonardo Sciascia che si occupò a
caldo della vicenda con il suo nobile, straordinario e scottante saggio-documento,
scritto nel 1978.
Quasi un istant-book, un fulminante resoconto sulla tragica parabola del
sequestro di Aldo Moro, la strage della scorta ed, in
ultimo, l'assassinio a freddo dello stesso, dopo una penosa prigionia,
a fronte della quale, le cosiddette Istituzioni consumarono la falsa
ragione di stato nel più bieco opportunismo politico.
L'edizione Adelphi che ho per le mani
del libro di Sciascia è corredata anche da un'accurata cronologia
degli eventi e della relazione parlamentare “di minoranza”
redatta dallo stesso Leonardo Sciascia e depositata agli atti della
Commissione in data 22 giugno 1982.
Il sugo del libro pare racchiuso in
quella strana epigrafe di Canetti che apre l'opera e lascia sfogo
alle cateratte della memoria: la frase più mostruosa di tutte:
qualcuno è morto al momento giusto.
Morire al momento
giusto. Perché altri (chi altri? quali altri?) hanno deciso di sì.
Perché da quella morte qualcuno, o forse in tanti, ne
traevano un proprio egostico vantaggio in uno scacchiere politico
ballerino e cronicamente instabile. In un misterioso gioco delle
parti, in cui nessuno, però, voleva fare l'assassino, ma tutti, in
modo più o meno percepibile, hanno aiutato (incoraggiato sarebbe
dire troppo) il boia ad uccidere.
Aldo Moro non era
semplicemente un uomo politico, era il segno di una stagione che
cambiava, che perseguiva ideali di partito nel contesto più ampio di
un dibattito parlamentare affannato e contorto.
Sciascia, non
dimentichiamolo, era schierato sul fronte del Partito Comunista, sia
pure da indipendente, e non risparmia certo critiche alla logica
democristiana che nella vicenda Moro sembrava aver soffocato nei suoi
maggiori esponenti non solo il “senso dello Stato”, ma anche
quello della verità, della solidarietà.
Ma, forse, proprio
per questo, per questo antielogio del politico Moro e del suo partito
(che viene da rassomigliare ad un emblematico guazzabuglio di
invereconda codardia), prima ancora della considerazione per l'uomo e lo statista,
che Sciascia rivela la sua onestà intellettuale. Proprio per questo
la sua condanna di quella gara di colpevole inerzia e di “presa
delle distanze”, che vide tra i suoi maggiori portagonisti gli
esponenti di maggior spicco della democrazia cristiana ( senza
maiuscole), appare ancora più vivida ed onesta.
Leonardo Sciascia è
abituato con la sua scrittura a graffiare la realtà, a scalfire quel
velo di buonismo ipocrita che spesso si traduce in collusione, in
complice duttilità ed acrobatico trasformismo. E la vicenda Moro ne
è un brillante esempio (cattivo esempio) di stato.
Nelle lettere che
Moro scrive dalla prigionia e che Sciascia riprende nel loro spirito
con sottile sagacia, traspare in tutta la sua sofferenza un j'accuse
contro la crudele ambiguità di quelli che Moro considerava i
veri arbitri della questione: «Muoio,
se così deciderà il mio partito...».
La
lucida coscienza dell'uomo di partito, dei giochi di potere che lo
avevano assegnato ad un triste destino, si condensano in una parabola
che lo aveva precipitato dal vertice del potere alla più assoluta
impotenza.
Il
libro di Sciascia, per chi non condivide una certa idea del mondo che
ha l'autore, deve essere letto con disincanto ideologico e senza
retrospettive profetiche.
L'opera
è il grido puro, vivo, rabbioso della coscienza di un intellettuale,
che ha vissuto il peggiore dei suoi incubi, lo Stato che si comporta
da anti-stato, da combriccola che congiura non il silenzio, ma la
complicità e la condivisione del male.
Alla
fine è morto un uomo. Forse, come dice Sciascia, L'affaire
Moro, potrebbe essere
letto come opera letteraria e non come opera di verità. Ma così non
è. L'assassinio di Aldo Moro non è un romanzo poliziesco, per
quanto indecifrabile e fascinoso nella sua malvagia essenza intima.
Sciascia, nell'ultimo paragrafo della pseudo-narrazione cita il
Borges di Ficciones,
e lancia l'ultima sfida al lettore: c'è
un indecifrabile assassinio nelle pagine iniziali, una lenta
discussione nelle intermedie, una soluzione nelle ultime. Poi,
risolto ormai l'enigma, c'è un paragrafo vasto e retrospettivo che
contiene questa frase: “Tutti credettero che l'incontro dei due
giocatori di scacchi fosse stato casuale”. Questa frase lascia
capire che la soluzione è sbagliata. Il lettore, inquieto, rivede i
capitoli sospetti e scopre un'altra soluzione, la vera”.
By
Michele Barbera
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