Dalla Rivista "IL CONVIVIO", edita dall'Accademia Internazionale "Il Convivio" n.63 riprendo il mio saggio sulla poesia contemporanea:
Non è raro imbattersi in analisi
compiute verso la coscienza della poesia contemporanea, alla
ricerca di un denominatore
comune che racchiuda la “poetica”
lirica moderna. E facilmente le dissertazioni
sono destinate a perdersi in un limbo, talvolta
disordinato, di matrici letterarie non facilmente distinguibili. È vero
che la poesia contemporanea è varia dal punto di vista
stilistico: spazia dai neoermetici, sino ad avanguardie sperimentali
post-moderne, che giocano sul filo del
linguaggio destrutturato, dei paradossi, delle metafore sensoriali, sino a
sprazzi di neoclassicismo con il recupero di metriche
antiche e rimari. Ma la domanda da cui parte la mia
modesta riflessione è assai diversa: Cosa vogliono
dire oggi i poeti? Qual è l’oggetto, se esiste, della
poesia? Attenzione, però. La poesia non è soltanto “comunicazione”.
Non è uno strumento semiologico su cui innestare
informazioni e contenuti di immediata fruizione. Se fosse
così non sarebbe poesia. Jean Guitton, congiuntamente ai
due scienziati G. Bogdanov e I. Bogdanov, nel saggio “Dio e
la scienza. Verso il metarealismo”, pur da “non-poeta”,
almeno in senso formale, enuncia la propria tesi nel sunto
«ciò che vorrei dimostrare insieme ai fratelli Bogdanov,
appoggiandomi su quelle che sono le loro conoscenze
scientifiche, è il fatto che alla fine di questo millennio i nuovi
progressi della scienza permettono di intravedere un’alleanza
possibile, una convergenza, seppur ancora oscura, tra la
conoscenza fisica e il sapere teologico, tra la scienza e il
mistero supremo». Il pensatore francese introduce nella sua
riflessione il concetto di “metarealismo”, visto e considerato come “un
nuovo modo di pensare che eliminare le frontiere tra lo
spirito e la materia”. Nulla di nuovo, forse, visto che
già in Russia, nei poeti del Novecento, troviamo teorizzata
una “scuola metarealista”, sia pure in una prospettiva
lievemente differente.
Ma in questo terzo millennio la
poesia ha il suo campo privilegiato non tanto nella
osservazione della realtà, quanto
nella emozione che la stessa
osservazione provoca. “Emozione” intesa quale
espressione libera e rarefatta dello
spirito, dove il lessico acquista
nuova pregnanza e le sfumature stilistiche diventano arte allo
stato puro sentimento,
concetto astratto di una realtà
la cui introspezione richiede indagini extra o meta sensoriali.
La realtà non è più tale. Diventa
sentimento che il poeta, nella sua sofferenza, si sforza
di comunicare, con esiti più o
meno felici, al suo lettore. Si
dice che gli occhi vedono, gli orecchi sentono ma solo l’intelletto-anima
comprende. Ciò che lo circonda diventa materia da
plasmare per lo spirito del poeta che, lontano dalla fisicità
meccanica, dallo stretto materialismo, o dalle costrizioni sensoriali,
inventa emozioni, crea sentimenti, forgiando nuovi significati a
parole antiche. Significativa la poetica di Olga
Sedakova, espressione del metarealismo russo, nel suo “Solo
nel fuoco, si semina il fuoco”. G. Mainardi nella sua
Prefazione, citando la poetessa russa M. Cveteva asseriva che “la contemporaneità del poeta è la sua condanna al tempo.
Condanna ad essere da lui condotto”. La Sedakova che pure proclama la
sua libertà, il suo iniziare a comporre poesie prima
ancora di leggere e scrivere, parla di una “generazione perduta”
di letterati condannati alla contemporaneità ed ad essere
allo stesso tempo inattuali.
Un disagio tutto interiore che porta all’astrazione
da una realtà inaccettabile (la Sedakova
operò durante il regime sovietico e la stessa Cveteva era esule in
Francia). S. Garzonio, nel commentare
Vasilij Filippov, espressione dell’underground leningradese,
scrive «Tra il mondo straniato dei segni letterari e
quello del degrado mentale della clinica, il poeta elabora i
suoi testi, nell’esigenza di fissare le impressioni quotidiane
che affollano le sue percezioni, nitide o narcotizzate che siano,
anche di azioni e situazioni insignificanti o di oggetti
dimenticati in penombra. La poesia di V. Filippov ha una
natura visuale e si esalta nell’artificio di cumuli di
figurazioni metaforiche sovrapposte in associazioni libere con la
disarmante semplicità di uno stile piano, molto spesso
costruito su versi liberi. Nella complessa semplicità si racchiude
l’essenza metafisica della scrittura dell’autore; questo
rischioso ossimoro, che potrebbe alludere alla componente
psicofisiologica della poetica di Filippov, non scade nella
banalità e non necessariamente va inteso come sinonimo o sintomo
di pazzia». Non vi è chi non veda in questa
accurata analisi, l’esatto sovrapporsi alla spiritualità di una poetessa
italiana come la nostra Alda Merini, testimone
della propria lucida sofferenza, che la porta a sublimare i propri
sentimenti, dove la rassegnazione diventa riscatto ed
i versi diventano libertà.
Dunque, libertà di sentimenti,
che equivale a libertà di espressione. In questo senso la
grammatica diventa prigione
insopportabile e la sintassi
catena da spezzare. Sino al rischio della incomunicabilità
secondo i canoni convenzionali.
Il lessico è solo materia grezza
da plasmare, sentimento da svelare o, a seconda, da
nascondere dietro azzardate
metafore e percezioni metalinguistiche. Libertà al poeta! Ovvero alla sua
emozione, intesa come capacità emotiva ed espressiva.
Sembra questa l’unica legge che può governare un mondo d’illusioni
e sofferenze, in cui la sensibilità sprofonda nell’angoscia
ed il disagio di vivere è un binario a senso unico
verso l’abisso sensoriale. Umberto Saba, che all’inizio fu
duramente stroncato anche da critici illustri,
ricerca, per suo stesso dire, nella sua opera, la “verità”, la “verità
che giace in fondo”, profonda, nascosta, che solo l’esperienza
del dolore è capace di rivelarci. E l’opera di Saba,
per alcuni incerta dal punto di vista stilistico, quasi “grigia”
o prosastica, in realtà è espressione di una vivida
consapevolezza che trascolora il quotidiano in una triste
percezione di impotente ed inutile paradosso: io non so amare /
io non so fare / bene che questa cosa/ cui dava a
me la vita dolorosa / unico scampo / io dico l’arte / d’incider
carte / di difficili versi / che spesso stanno fra lor
come avversi / nemici in campo.
Ma la poesia, non è solo intima
sofferenza. Essa accende gli animi, diventa “fuoco” che si
forgia nel fuoco, pathos purissimo, che colpisce e coinvolge, se non
stravolge, senza preavviso lo spirito di chi vuole
leggere. E così è per l’ermetismo (Ungaretti, Montale, Luzi), in
cui il concetto viene radicalizzato, scarno nella sua essenzialità. Il
lemma diventa poesia, nel suo significato
profondo, quasi un linguaggio iniziatico, che, come un magico scrigno,
imprigiona le emozioni ed i sentimenti. Parole e costrutti
che sintatticamente paiono semplici e banali, ma che
contengono una terza dimensione, una profondità non immediatamente
percepibile. Da troppo tempo il metalinguaggio
dei poeti contemporanei è divenuto insolita materia di
ironia per la sua sospetta incomprensibilità, che taluni
confondono con incapacità espressiva. Di contro, si assiste
ad una sospetta “proliferazione” di poeti: per molti rivestire i
propri pensieri, per capacità, talento o fortuna, di espressioni
o lemmi oscuri o illogici è divenuto sinonimo di
poesia. Facilmente ci si attiene ad una “forma” che, con l’infarcitura
di sospensioni e troncature, diventa surrogato di poesia.
Ma l’arte poetica è ben altro.
Essa è concetto, sentimento, passione. Emozione. Che deve
comunicarsi dall’artista
al fruitore. Può diventare (o
sembrare o, forse, in definitiva, lo è) linguaggio per iniziati.
Noi riteniamo che sia uno stimolo alla personale sensibilità di
ciascuno di noi, poeti e lettori, una frusta per i
pensieri troppo spesso stereotipati
dell’uomo moderno, afflitto da
afflati consumistici ed a obsolescenza programmata, affinché non
abbandoni la capacità
di riflettere, di sopravvivere ad
una civiltà fast-food che brucia l’effimero, che rarefà
ogni sentimento, che dietro
l’illusione nasconde il vuoto abissale.
Mi piace congedare questa mia
riflessione sulla liricità contemporanea con i versi
rivelatori di Quasimodo: “ognuno
sta solo sul cuor della terra /
trafitto da un raggio di sole / ed è subito sera”, dove la
solitudine dell’uomo-poeta fa da
contrappeso alla brevità della
esperienza umana, pure illuminata da evanescente felicità (raggio
di sole), che si mostra
pure essa crudele (trafitto).
La poesia trascende la materia,
la fisicità, va oltre la realtà, diventa emozione
profonda, intimistica e pure universale.
In una parola metarealistica.
By Michele Barbera