lunedì 10 maggio 2021

LA RECENSIONE: L’OPERA ANTOLOGICA DEI POETI SICILIANI “VENT’ANNI DOPO IL DUEMILA” A CURA DI JOSÉ RUSSOTTI

 



Di Lorenzo Spurio 

Gli studi e gli approfondimenti sulla poesia siciliana contemporanea si arricchiscono di un volume particolarmente pregevole uscito negli ultimi giorni dopo un instancabile lavoro di ricerca, studio e compilazione del poeta messinese José Russotti[1]. Il volume, Antologia di Poeti contemporanei siciliani. Vent’anni dopo il Duemila, pubblicato per i tipi di Fogghi mavvagnoti, è un tomo prezioso che si compone di trecentosessanta pagine ricche di informazioni, note biografiche, approfondimenti, commenti critici, rimandi, studi ragionati e apparati bio-bibliografici sui numerosi poeti e poetesse che ivi sono stati inseriti.

Si sa, ogni operazione antologica desta sempre attenzione e curiosità da parte dei lettori ma spesso non è scevra da opinioni contrastanti tra chi, entusiasta per la propria presenza (magari al fianco di “grandi” della letteratura, presenti anche in manuali e storie letterarie di critici eminenti) e sfiduciato e incollerito per la non inserzione, creano spesso un clima difficile da indagare.

Ruolo del curatore è quello di completare il lavoro per come l’ha ideato senza lasciarsi intaccare più di tanto dalle dicerie e dalle critiche che, dinanzi a un’operazione collettiva come questa che richiama un discorso di aristocrazie e florilegio, immancabilmente si presenta. Ce lo insegna Pier Paolo Pasolini che, con la nota antologia di poesia dialettale uscita per i tipi di Guanda curata con Mario dell’Arco nel 1952 diede adito a critiche furibonde sui cosiddetti “mancati inserimenti” o le sedicenti “gravi lacune” ma anche nei confronti de Dieci condizioni poetiche (1957) dell’anconetano Plinio Acquabona che, più che mosso dall’intenzione di creare un’antologia vera e propria, produsse un testo polifonico – nel quale pure si auto-inserì – includendo alcune delle voci poetiche del periodo che considerava importanti. Anche in quel caso non mancarono critiche. Come – lo riconosco – non ne son mancate qualche anno fa quando compilai i due corposi volumi del Convivio in versi. Mappatura democratica della poesia marchigiana (PoetiKanten Edizioni, Sesto Fiorentino, 2016), con l’inserimento totale di più di 280 poeti (ciascuno con nota bio-bibliografica e un testo scelto) dalla seconda metà dell’Ottocento ad oggi. Si sa il desiderio utopico di totalità non può sussistere nell’imperfettibilità dell’uomo ed è umanamente impossibile approcciarsi in maniera globale e totalizzante in relazione a un “censimento” di questo tipo. Chiaro è che l’antologista, pur non chiarendone in maniera diretta su carta le ragioni, dovrebbe certo lasciare intendere o motivare quelli che sono i paradigmi che hanno condotto alla costituzione di un’antologia in un determinato modo.

Tornando all’operazione editoriale di José Russotti questo aspetto vien chiarito molto bene nella nota incipitaria del poeta Mario Tamburello che, in apertura ai tanti profili bio-bibliografici inseriti dal curatore, sostiene: «Una bella raccolta e, come ogni opera bella, inevitabilmente incompiuta, perché accanto ai “Grandi” e ai già selezionati, altre interessanti voci nuove sono da scoprire nello scenario letterario di Sicilia» (11). Credo che stia proprio in questo la ricchezza di un’antologia: nella capacità di non dirsi mai compiuta e completa e di richiamare sempre continue rivisitazioni, implementazioni ed aggiunte. Non solo alla luce del tempo che passa e che, puntualmente, ci consente di prendere atto di nuovi profili poetici che s’imprimono e di altri che s’irrobustiscono, ma anche per andare di volta in volta a colmare – nei limiti del consentito e delle conoscenze che è possibile raggiungere – quei “buchi” che necessitano giustamente una trattazione, seppur approssimativa e generale, almeno un sorvolo e un richiamo. La limitatezza e friabilità dell’antologia sta proprio in questo che, visto con altri lenti, non può essere che un elemento di forza visto dal critico onesto, dall’antologista premuroso e grande studioso prima di tutto come un dovere morale nei confronti della letteratura. Russotti, dal momento che lascia ben intendere che questo è solo il primo volume di non si sa quanti tomi – e dunque che è un progetto in fieri – mi pare di poter osservare che “naviga” proprio su questo tipo di ragionamento. E per fortuna. Ben dice il poeta Tommaso Romano che, nel commento conclusivo, a titolo riepilogativo dell’intero progetto, osserva che «Russotti [ha fatto] scelte libere e consapevoli, [ha proposto] un suo personalissimo modo di approccio che rimanda e invita il lettore e lo studioso ad approfondimenti scientifici ulteriori» (355).

Un’opera come questa, che si prefigge di raggrumare nelle pagine di un libro tanti (e così tanto diversi) percorsi umani e letterari necessita, oltre che di tutti questi accorgimenti critici che la dotano e la arricchiscono, di una suddivisione degli stessi contenuti. Ecco che viene in aiuto la ripartizione (senz’altro opinabile, ma in tal contesto utile per l’organizzazione) tra due macro-gruppi di poeti “I Grandi di Sicilia” e “I Contemporanei di Sicilia”. Non è una divisione netta tra morti e viventi. Tra i cosiddetti classici, il cui decesso ha marcato un percorso di chiusura e di lettura dell’opera e, semmai, la nascita di una critica fluente e coloro che, nell’attualità, sono impegnati in campo poetico. Difatti troviamo nella prima sezione dei “Grandi” voci importanti – anche a livello nazionale – quali Giuseppe Bonaviri (1924-2009), Bartolo Cattafi (1922-1979) e Nat Scammacca (1924-2005), importante ponte tra poesia siciliana e americana nonché esponente di spicco di un avanguardismo poetico. Giustamente tra i “Grandi” figurano anche (tra gli altri) i poeti Lucio Zinna (1938), Tommaso Romano (1955), Santo Calì (1918-1972) di Linguaglossa (CT)[2], autore importante per gli studi sul folklore della Sicilia orientale, Salvatore Di Marco (1932), poeta dialettale ma soprattutto fine e insaziabile saggista (autore, tra l’altro, di un pregevole saggio su Ignazio Buttitta). Notevole è il profilo del prof. Domenico Pisana (1958) di Modica, attento studioso della poesia degli Iblei con varie pubblicazioni, non solo quale poeta ma anche nelle vesti di teologo. Di Pisana è inserita la pregevole lirica “Canto dal sud est”. Mia fortuna e onore l’aver conosciuto e l’intrattenere rapporti con alcuni di essi.

La seconda sezione del volume, “I contemporanei di Sicilia”, totalizza ben cinquantaquattro inserimenti di poeti contemporanei siciliani che vivono nelle varie zone dell’Isola. Inutile e troppo didascalico citarli tutti (rimando all’indice dei nomi presente in rete); tra di essi segnalo Nino Barone (1972) senz’altro uno dei maggiori poeti dialettali del Trapanese assieme a Marco Scalabrino[3] (1952); Francesco Camagna (1961) di Marsala presente con un doloroso testo, “La strage del pane”, relativo a un tragico episodio che accadde nella centrale Via Maqueda a Palermo in pieno secondo conflitto mondiale; le palermitane Rosa Maria Chiarello (1959) e Francesca Luzzio (1950) di cui la seconda, oltre che poetessa, anche fine critico letterario e giurata in vari concorsi di poesia; Pietro Cosentino (1941) poeta e organizzatore di eventi culturali assieme a Russotti, Emanuele Insinna (1947) con un testo evocativo e una sorta di “manifesto” per la stessa antologia: “Cu voli puisia vegna ‘n Sicilia” (“Chi vuole poesia venga in Sicilia”); le cantautrici Serena Lao (n.d.) e Cinzia Sciuto (n.d.), rispettivamente palermitana e catanese; in particolare la lirica “Cancia lu ventu” della Sciuto è di formidabile presa sul lettore, capace di trasmettere grande fascino e di far sentire quel vento di cui parla sulla propria pelle; il catanese Antonino Magrì (1955), poeta ma non solo, ricercatore attento di voci poetiche locali che nel 2009 pubblicò una corposa antologia di poeti siciliani in quattro volumi; Giuseppe Pappalardo (1945), altro cultore del dialetto siciliano, attivo anche nel promuovere con eventi e iniziative sul territorio l’interesse per il dialetto siciliano e la sua letteratura. Tanti altri sono i nomi che qui trovano collocazione – mi sono limitato a citarne alcuni – ma tanti altri li conosco di persona, li ho incontrati, ne apprezzo opere e codici espressivi; chiaramente tra loro vi è lo stesso curatore dell’antologia – quale promotore culturale e poeta tanto in lingua e in dialetto – ovvero José Russotti di cui il suo Spine d’Euphorbia (2017) ha ottenuto un ampio consenso nella critica.

Russotti con la sua opera pone l’attenzione, con l’intenzione di allontanare lo spettro dell’oblio, anche su autori che, per ragioni di vario tipo, non hanno avuto la possibilità d’imporsi distintamente sulla scena letteraria o per i quali la mancanza di iniziative atte a tenere alti i rispettivi nomi sono mancate o rimaste disattese. Importante la riscoperta e la diffusione del già citato Salvatore Gaglio, stimato medico oltre che poeta e drammaturgo, di Santa Elisabetta di Agrigento venuto a mancare nel 2017. Amplissima la produzione di Gaglio – soprattutto in dialetto – che gli valse numerosi e importanti premi e che, grazie a Russotti e Piero Cosentino, ha visto la dedica, in termini recenti, in un premio letterario a Malvagna (ME). L’opera di Russotti fornisce un ampio ventaglio di possibilità di letture e di approfondimenti; le biografie, gli interessi e le pubblicazioni dei tanti antologizzati – soprattutto in campo critico-saggistico – sono talmente ampie e diversificate che ciascuno – realmente – può trovarvi approdi importanti per ulteriori ricerche, come pure sostiene il prof. Romano.

Opere come queste ampliano la conoscenza e permettono anche il sano confronto, pur nella loro conformazione didascalica – più consona forse all’enciclopedia che al volume di facile utilizzo – e sono utilissime per la loro esattezza e ricchezza di contenuti – ben lungi dalle antologie-museo – nel rendere la poesia viva e presente tra noi, anche quella prodotta decenni ormai lontani. Non è la finalità storiografica, quella di porre le biografie dei grandi nella teca chiusa e dorata della memoria e i contemporanei in teche tendenzialmente aperte nelle quali man mano si assommano materiali, lo scopo del progetto, semmai quello di rendere viva la Sicilia, tra temi, codici, linguaggi, perplessità, pensieri e paesaggi di ieri e di oggi affinché ne curiamo il ricordo e ne facciamo testimonianza.

 Lorenzo Spurio

 31-10-2020



[1] Da vari anni nell’ambito dello studio della poesia mi sento particolarmente affascinato da quella che viene prodotta, oltre che nella mia Regione, in terra di Sicilia. Numerosi eventi letterari nella forma soprattutto del reading poetico da me organizzati in Sicilia a partire dal 2013, in varie parti dell’Isola, mi hanno permesso di conoscere un gran numero di poeti e di entrare in contatto con loro. Una gran quantità di materiali (poesie lette durante i reading) sono state raccolte in un ampio volume collettaneo dal titolo Sicilia, viaggio in versi (Ass. Culturale Euterpe, Jesi, 2019) da me curato che comprende le opere degli autori che dal 2013 al 2019 hanno preso parte a eventi letterari in Sicilia tenutisi a Palermo, Bagheria, Messina, Catania e Caltanissetta. Necessarie, un po’ come nel volume antologico di Russotti in oggetto, due ripartizioni all’interno del volume – in aggiunta a quella degli autori che costituiscono la parte centrale del volume – ovvero quella degli “ospiti speciali” dove figurano, tra gli altri, Maria Grazia Insinga, Salvatore Mirabile, Tommaso Romano, José Russotti e Lucio Zinna e la sezione “in memoriam” rivolta a quei poeti che ci hanno lasciato ma che vanno degnamente ricordati. Quest’ultima sezione è composta da brevi saggi critici stilati dal sottoscritto e dai poeti Antonino Causi, Antonino Magrì e Grazia Dottore sui poeti Domenico Asaro (1973-2018), Antonino Bulla (1914-1991), Maria Costa (1926-2016), Maria Ermegilda Fuxa (1913-2004), Salvatore Gaglio (1949-2017), Alessandro Miano (1920-1994), Gaetano Zummo (n.d.-2018) e Nino Martoglio (1870-1921). Quest’ultimo, chiaramente, fu regista e drammaturgo.

[2] Altro poeta inserito nella sezione dei “Grandi” originario di Linguaglossa, nel Catanese, è Senzio Mezza che lì nacque e che da anni vive a Scandicci (FI).

[3] Quest’ultimo non è contemplato in questo primo volume dell’antologia ma mi pare, comunque, opportuno citarlo.

sabato 1 maggio 2021

LA RECENSIONE: IL SETTIMO COLPO (Catarsi di un eroe dei nostri tempi)


 

di Pina D’Alatri


Un testo intenso di grande spessore morale, ricco di pathos, cosparso del sale della saggezza, illuminato dalla “Parola” di Cristo che risuona in eterno (“Vi mando come pecore in mezzo ai lupi”), la recente opera dello scrittore e avvocato Michele Barbera (“Nessun uomo è luce a se stesso”, Il martirio di Rosario Angelo Livatino in odium fidei et iustitiae, Gianmarco Aulino Editore, Sciacca 2020 pagg. 142).

 Michele Barbera, noto avvocato e scrittore poliedrico di Menfi, appassionato studioso di filosofia e di teologia, ripercorre in questo saggio la vicenda umana del giudice-ragazzino, Rosario Angelo Livatino, ucciso barbaramente il 21 Settembre del 1990, mentre si recava negli uffici del Tribunale di Agrigento, da quattro sicari assoldati dalla “Stidda” (associazione mafiosa agrigentina). Era tanta la sua “purezza morale” che, temendo per la sua scorta, evitava di farsi accompagnare ed utilizzava la propria autovettura per gli spostamenti. Sapeva certamente di essere nel mirino ma, da uomo generoso ed integerrimo, non credeva di essere tanto inviso da poter essere ucciso o seppure lo supponeva, non voleva che altri rischiassero per lui. Allorchè la sua Ford Fiesta amaranto viene speronata dall’auto dei suoi carnefici, egli tenta la fuga a piedi ma viene martirizzato dai colpi di pistola e finito, quando ormai è agonizzante, da un settimo proiettile mirato alla testa. Un’esecuzione in piena regola, Rosario si accascia e ormai in punto di morte ha la forza di chiedere: ”Cosa vi ho fatto picciotti?”.

 In questa domanda, risulta palese l’integrità morale dell’uomo di giustizia che non può supporre un tale odio nei suoi confronti perché egli ha operato sempre per il bene dello stato, punendo la colpa nel colpevole, senza infierire. Gaetano Puzzangaro, il killer ferale, interrogato sul movente dell’omicidio, risponde, con agghiacciante spavalderia: ”Io non sapevo nemmeno chi fosse Rosario Livatino. Ho saputo di lui poco prima della sua uccisione”. Un abisso spaventoso che evidenzia il vuoto morale e spirituale di un’umanità perversa, un settimo proiettile che assume un valore apotropaico. 

I delinquenti si rendono conto che, ormai, il giudice già al sesto colpo è in agonia, ma il settimo colpo diventa il sigillo di un’azione nefanda tale da dare un forte segnale a tutti e da preannunciare la pena della morte a chi oserà opporsi al “basamento” mafioso. E’ un segnale che tutti gli oppositori della mafia debbono cogliere. In realtà Livatino non è inviso, solo, alla mafia ma anche a molti politici locali e nazionali. Egli è un uomo di adamantina purezza, è un giustiziere saggio che crede nel valore catartico della pena, addirittura è capace di portare personalmente il mandato di scarcerazione ad un recluso perché non ci siano ritardi. Egli è sempre alla ricerca di una verità assoluta che determini una giusta pena. 

La funzione del magistrato, per lui, è quella di “giudicare con umiltà e di non dimenticare di avere davanti a sé un altro se stesso, anche se colpevole ma pur sempre titolare di diritti”. Livatino, assumendo un impegno spirituale nell’amministrare la giustizia, diviene garante della giustizia umana sulla terra, intesa come propaggine divina. Proprio per questo egli subisce un effetto “Lucifero” perché il male si scatena contro di lui che, nell’illuminazione divina, ritrova la propria essenza di uomo. Deve, quindi, essere eliminato come un cinghiale impazzito: muore l’eroe, l’uomo puro; di contro, trionfa il boss mafioso che tende a ricoprire un ruolo divino nel dispensare benefici e punizioni, elevando al potere ogni suo protetto. 

Chiesa e mafia: i mafiosi uccidono, “in odium fidei”, chiunque ritengano loro avversario. Ne è un esempio Padre Pino Puglisi che viene ucciso ”perché annuncia il Vangelo che è fede, giustizia, amore, pace”. All’opposto, il boss mafioso vuole sostituirsi a Dio con atti di superbia, manipolando i messaggi di amore, umiltà e perdono. Di contro, Livatino è caritatevole con tutti, anche con i colpevoli, ritenendo giusto punirli ma senza mortificare la loro umanità deviata. In realtà per lui la “correzione è più importante della pena”, un essere deviante può essere corretto, solo, con una pena adeguata alla colpa. La pena non deve però mortificare il condannato, abbrutendolo ma deve indurlo alla riflessione, proprio con l’espiazione della medesima. Il mafioso è giustiziere, in nome di un dio vendicatore implacabile che egli stesso incarna, una sorta di Anticristo che spazza via tutti coloro che sono testimoni della fede cristiana. La Chiesa ha i propri libri sacri, il mafioso ha il proprio codice illegale e blasfemo ed i suoi operatori sono “operai del maligno”. 

Papa Francesco bolla i mafiosi come “scomunicati” e quindi Livatino è il più grande avversario della mafia perché “apostolo della fede in Dio” e perché “esercita la legge umana e segue la fede cristiana”. Egli è un esempio per tutti coloro che operano nel campo del diritto: per la coerenza tra la sua fede ed il suo impegno di lavoro e per l’attualità delle sue riflessioni. Nella società “liquida” in cui dominano il consumismo, l’effimero ed il mutevole, Livatino riteneva fondamentale la funzione del giudice, fissandone la deontologia. Dopo un periodo di crisi a causa di delusioni nell’ambiente giudiziario, egli aveva recuperato un po’ di fiducia ma da lì a poco sarebbe stato barbaramente ucciso ”in odium fidei” come Monsignor Romero e Padre Pino Puglisi, martiri anch’essi per la stessa motivazione. San Giovanni Paolo II ha dato particolare lustro alla figura del “Giudice Ragazzino”, definendolo martire della giustizia ed indirettamente della fede. Un percorso luminoso che l’avvocato Michele Barbera ha ben saputo illustrare, suscitando profonde emozioni nel lettore.