Nonostante
certe “sbandate” con cui di tanto in tanto l’Accademia Svedese
ci ha voluto sorprendere negli anni passati, la scelta del Premio
Nobel conserva sempre un solido fascino nel proporre nomi forse
inusuali, o non conosciutissimi al grande pubblico, ma spesso
intensamente vocati e talentuosi.
È
il caso di quest’anno.
Louise
Glück,
di
cui avevo letto un paio di poesie qualche mese fa, rimanendone assai
colpito, schiude nei suoi versi le
pieghe più intime del suo animo
al lettore, con cui entra immediatamente in una tormentata empatia.
Sono
poesie metaemozionali, in cui la metafora naturalistica e
l’umana esistenza
trasfondono
in
rarefatte tessiture intimistiche, pronte
a svelare
un vissuto sofferto e passionale.
La poetessa con il Presidente Obama |
Ha
pubblicato più di dodici raccolte ed è presente in innumerevoli
antologie, non solo negli Stati Uniti, dove è popolare e
pluripremiata, ma anche nel resto del mondo.
Osannata
come cantrice dei valori femminili più che femministi, la Glück
arpeggia nelle sue liriche su vasti panorami di sentimento e di
intensa analisi del “precario” umano. La
morte, il fallimento, la sofferenza, la caduta, la ripresa, sono
sfumature che tingono di ambigua valenza emotiva i versi. Molti
critici americani la individuano come la poetessa del sentimento
del
“cambiamento”, di un progredire esistenziale
frammentato, interrotto, ma
continuo, che non s’arresta di fronte alle difficoltà di vivere ed
al male che
contraddistingue la condizione umana.
Il pathos lirico la conduce ad un approccio con le tematiche
esistenziali a
volte ritenuto persino
contraddittorio, dove a visioni idilliache si affianca una coscienza
personale
tormentata.
Spesso
paragonata a Emily Dickinson, da cui però si differenzia per un
notevole e moderno disincanto emotivo.
Ecco
di seguito alcune sue poesie.
Dopo che mi vennero in mente tutte le cose,
mi venne in mente il vuoto.
C’è un limite
al piacere che trovavo nella forma…
In questo non sono come voi,
non ho risoluzione in un altro corpo,
non ho bisogno
di un riparo fuori di me…
Mie povere ispirate
creazioni, siete
distrazioni, in ultimo,
puri inceppi; siete
alla fine troppo poco simili a me
per piacermi.
E così candide:
volete essere ripagate
della vostra scomparsa,
pagate tutte con qualche parte della terra,
qualche ricordo, come una volta eravate
compensate per il lavoro,
lo scriba pagato
con argento, il pastore con orzo
per quanto non è la terra
a durare, non
queste schegge di materia…
Se apriste gli occhi
mi vedreste, vedreste
il vuoto del cielo
specchiato in terra, i campi
di nuovo nudi, senza vita, coperti di neve…
poi luce bianca
non più travestita da materia.
Aprile
Nessuna disperazione è come la mia disperazione…
Non avete luogo in questo giardino
di pensare cose simili, producendo
i fastidiosi segni esterni; l’uomo
che diserba cocciuto tutta una foresta,
la donna che zoppica,
rifiutando di cambiar vestito
o lavarsi i capelli.
Credete che mi importi
se vi parlate?
Ma voglio che sappiate
mi aspettavo di più da due creature
che furono dotate di mente: se non
che aveste davvero dell’affetto reciproco
almeno che capiste
che il dolore è distribuito
fra voi, fra tutta la vostra specie,
perché io possa riconoscervi,
come il blu scuro marchia la scilla selvatica,
il bianco la viola di bosco.
By Michele Barbera
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