Agrigento nel 2025 ha un'occasione storica: è
capitale della cultura.
Invece...
È di queste ore la polemica per il cartello ANAS sbagliato, che contiene ben due rozzi strafalcioni grammaticali. Poco male. Dopo la denuncia del Corriere tramite la salace penna di Gian Antonio Stella, il cartello è stato (o sarà) rimosso.
Eccola la “pezza”, il “rattoppo”. Che pare caratterizzare tutta l’approssimativa organizzazione delle attività di un appuntamento storico per la città di Pirandello.
Chi è minimamente addentro l’organizzazione sa benissimo di riunioni convulse, di prese di posizione, di arroccamenti, di campanilismi e di ostracismi, che si consumano da un bel po’ su scrivanie di eccellenti uffici, nei salotti illuminati, davanti alle tazzine di sapido caffè, e così via.
Agrigento Capitale della Cultura è diventata l’occasione di un palcoscenico malato e tristemente tragico, in cui l’arte, la letteratura, l’esaltazione di luoghi mitici annegano in complicanze burocratiche e di favoritismi “bilanciati”, inviluppati in reti complicate di preferenze e amicizie political-scambiste.
Regnano i grand commis, i faccendieri mediatici, gli affarismi beceri, e, perché no, i paradossi pirandelliani, le convenzioni umorali, le sottili vendette e le rivalse dei dogmatici istituzionali.
No, signori miei, non è questione di “cattiva” organizzazione.
Sbaglia chi ritiene che Agrigento e gli agrigentini siano incapaci di organizzare eventi o fare programmazioni culturali.
Il concerto dei “Volo” è stato l’esempio di come ad Agrigento la finzione possa divenire realtà, con la complicità mass-mediatica del popolo agrigentino: un falso storico che, però, ha mosso consensi e denaro, soddisfacendo chi doveva soddisfare.
In Sicilia si dice argutamente che “il fatto è uno, il discorso è un altro”. Una cosa è l’apparenza di un caos magmatico (che starebbe pure bene fisiologicamente nella terra di Pirandello), un’altra è la guerra sottile che da decenni si consuma all’ombra delle pietre ataviche della Valle dei Templi.
Ci sono diktat che nessuno può ignorare, ma tutti dovrebbero combattere.
Al bando i “geni solitari” (come Camilleri, prima che lo straripante successo editoriale e televisivo imponesse ai suoi detrattori di accettarlo e digerirlo), via le manifestazioni letterarie “popolari” che davano visibilità agli scrittori locali ed agli artisti in erba, vadano a quel paese i cosiddetti operatori culturali indipendenti.
La cultura agrigentina ha le sue regole, le sue convenzioni, i suoi referenti, i suoi binari, le sue amicizie che devono obbligatoriamente gravitare attorno ai soliti noti, tramite collaudati canali di reciproci favori, conoscenze e precisi “scambi”.
La cultura agrigentina campa di se stessa, si cannibalizza, miope, incapace di vedere al di là delle colonne del Tempio della Concordia e di Telamoni raffazzonati.
Insomma, la Capitale della Cultura c’è. Solo che ancora non si vede. Sarà una capitale della cultura centralizzata, organizzata ed istituzionalizzata, con la dovuta ipocrita e maleodorante passerella di “vip” annoiati e nomi altisonanti pagati a peso d’oro, con i suoi, direbbe Camilleri, sparluccicanti festini e mostre lustrinate, indorata a dovere e lisciata come il pelo di un porco prima di essere scannato. Sarà la Cultura dei musei, delle rovine pastrocchiate, il tutto curato da abili maneggioni istituzionalizzati che pregano ciascuno per l’insuccesso dell’altro.
Tutto il resto a mare.
In quel sornione mare Africano, che tutto inghiotte e tutto assimila, crocevia di vita e di morte, di speranze deluse e di illusioni allucinate, forse l’unico elemento eterno ed autentico di questa terra dagli straripanti paradossi e pantomime farlocche.
Il mare, dove Luigi Pirandello, quel figlio del Caos che, criticato nella sua terra e costretto a cercare e ottenere il successo altrove, volle che fossero disperse le sue ceneri. E non mi sbaglio concludendo che, sul punto, Camilleri sarebbe d'accordo con me.
Invece...
È di queste ore la polemica per il cartello ANAS sbagliato, che contiene ben due rozzi strafalcioni grammaticali. Poco male. Dopo la denuncia del Corriere tramite la salace penna di Gian Antonio Stella, il cartello è stato (o sarà) rimosso.
Eccola la “pezza”, il “rattoppo”. Che pare caratterizzare tutta l’approssimativa organizzazione delle attività di un appuntamento storico per la città di Pirandello.
Chi è minimamente addentro l’organizzazione sa benissimo di riunioni convulse, di prese di posizione, di arroccamenti, di campanilismi e di ostracismi, che si consumano da un bel po’ su scrivanie di eccellenti uffici, nei salotti illuminati, davanti alle tazzine di sapido caffè, e così via.
Agrigento Capitale della Cultura è diventata l’occasione di un palcoscenico malato e tristemente tragico, in cui l’arte, la letteratura, l’esaltazione di luoghi mitici annegano in complicanze burocratiche e di favoritismi “bilanciati”, inviluppati in reti complicate di preferenze e amicizie political-scambiste.
Regnano i grand commis, i faccendieri mediatici, gli affarismi beceri, e, perché no, i paradossi pirandelliani, le convenzioni umorali, le sottili vendette e le rivalse dei dogmatici istituzionali.
No, signori miei, non è questione di “cattiva” organizzazione.
Sbaglia chi ritiene che Agrigento e gli agrigentini siano incapaci di organizzare eventi o fare programmazioni culturali.
Il concerto dei “Volo” è stato l’esempio di come ad Agrigento la finzione possa divenire realtà, con la complicità mass-mediatica del popolo agrigentino: un falso storico che, però, ha mosso consensi e denaro, soddisfacendo chi doveva soddisfare.
In Sicilia si dice argutamente che “il fatto è uno, il discorso è un altro”. Una cosa è l’apparenza di un caos magmatico (che starebbe pure bene fisiologicamente nella terra di Pirandello), un’altra è la guerra sottile che da decenni si consuma all’ombra delle pietre ataviche della Valle dei Templi.
Ci sono diktat che nessuno può ignorare, ma tutti dovrebbero combattere.
Al bando i “geni solitari” (come Camilleri, prima che lo straripante successo editoriale e televisivo imponesse ai suoi detrattori di accettarlo e digerirlo), via le manifestazioni letterarie “popolari” che davano visibilità agli scrittori locali ed agli artisti in erba, vadano a quel paese i cosiddetti operatori culturali indipendenti.
La cultura agrigentina ha le sue regole, le sue convenzioni, i suoi referenti, i suoi binari, le sue amicizie che devono obbligatoriamente gravitare attorno ai soliti noti, tramite collaudati canali di reciproci favori, conoscenze e precisi “scambi”.
La cultura agrigentina campa di se stessa, si cannibalizza, miope, incapace di vedere al di là delle colonne del Tempio della Concordia e di Telamoni raffazzonati.
Insomma, la Capitale della Cultura c’è. Solo che ancora non si vede. Sarà una capitale della cultura centralizzata, organizzata ed istituzionalizzata, con la dovuta ipocrita e maleodorante passerella di “vip” annoiati e nomi altisonanti pagati a peso d’oro, con i suoi, direbbe Camilleri, sparluccicanti festini e mostre lustrinate, indorata a dovere e lisciata come il pelo di un porco prima di essere scannato. Sarà la Cultura dei musei, delle rovine pastrocchiate, il tutto curato da abili maneggioni istituzionalizzati che pregano ciascuno per l’insuccesso dell’altro.
Tutto il resto a mare.
In quel sornione mare Africano, che tutto inghiotte e tutto assimila, crocevia di vita e di morte, di speranze deluse e di illusioni allucinate, forse l’unico elemento eterno ed autentico di questa terra dagli straripanti paradossi e pantomime farlocche.
Il mare, dove Luigi Pirandello, quel figlio del Caos che, criticato nella sua terra e costretto a cercare e ottenere il successo altrove, volle che fossero disperse le sue ceneri. E non mi sbaglio concludendo che, sul punto, Camilleri sarebbe d'accordo con me.
By Michele Barbera