Tradizionalmente,
le banche popolari hanno da sempre rappresentato un punto fermo nell’economia
del territorio. Le banche popolari, nate da un’azionariato diffuso, di estremo
coinvolgimento delle comunità locali, erano il volano di un circuito il più delle
volte virtuoso che si distingueva anche per l’attenzione alla piccola impresa,
agli artigiani ed in genere al tessuto economico locale.
Dal 2015 non è
più così.
A farne le
spese, ancora una volta, i soci. Quelli piccoli. In tutto il territorio
nazionale.
Prima della
famigerata riforma, che è stata “imposta” dall’Unione Europea, il valore della
quota era attribuito dai soci nelle apposite assemblee annuali. Talvolta, però
è capitato (i casi più estremi sono stati le Banche popolari venete) che i
consigli di amministrazione gonfiassero, con l’aiuto di esperti prezzolati, il
valore della singola quota. Ciò aveva un duplice effetto benefico: da un lato
rassicurava il socio sulla tenuta del suo capitale in quote, dall’altro,
rendeva grassi i bilanci delle banche.
Inutile dirlo,
su questa prassi, malevola ed illecita, gli Organi di Vigilanza (leggi Banca d’Italia)
non hanno fatto granché. Erano tutti contenti.
La fiducia di
cui godeva la banca, pur su dati falsi, invogliava i depositi, creava masse di
risparmio notevoli ed, in genere, c’era una certa riluttanza da parte del socio
a monetizzare le quote, in quanto le famiglie vedevano l’investimento come
sicuro e durevole.
Quando il
sistema ha imposto la conversione delle quote in azioni, è avvenuto il corto
circuito.
Intanto è
scoppiata la bolla del valore “gonfiato”. Poi, i soci hanno dovuto fare i conti
con la materiale impossibilità di vendere le azioni, sebbene quasi tutte le
banche popolari siano quotate (inutilmente) ad un mercato secondario – l’HIMTF –
che in realtà è poco frequentato e che ha visto deprezzarsi il valore della
quota-azione delle varie banche popolari del 30/40%.
I volumi di
scambio sono bassissimi e le Banche popolari – di fatto – con un’artata
interpretazione del Testo Unico Bancario spesso rifiutano di rimborsare le
quote-azioni al socio che intende uscire dal capitale sociale, prendendo a
mente la necessità di salvaguardare il “capitale sociale”.
Di fatto, a
meno che non si goda di “raccomandazioni” privilegiate (vedi il caso di Renzo Rosso
e di Giuseppe Stefanel che hanno venduto le loro azioni di Banca Popolare di
Vicenza realizzando utili per centinaia di migliaia di euro, quando già la
banca era in crac e rifiutava di acquistare le azioni agli altri soci), il
socio che vuole recedere dalla Banca ha solo due alternative: sperare di
vendere ad altro privato (leggi “pollo”) o assoggettarsi alle macchinosità dell’HIMTF,
senza nessuna garanzia di prezzo e di tempo.
Il semplice
recesso, o l’esclusione (si pensi alla morte del socio), spesso fanno scattare
nella Banca il rifiuto al rimborso, rifiuto che, legge alla mano, è sicuramente
illegittimo.
Sono già in
corso numerosi contenziosi, ed il caso è arrivato sin’anche all’Alta Corte di
Giustizia Europea.
Vi sono
interessanti pronunce dei Giudici di merito che ristabiliscono la legalità,
denunciando gli abusi delle Banche.
Ancora una
volta la politica è latitante ed al contrario di quanto strombazzano i
politicanti di nuovo e vecchio corso, i risparmiatori fanno sempre più la
figura di sprovveduti e la fine dei truffati, spesso perdendo i risparmi di una
vita.
Ma il risparmio
è o non è un valore tutelato dalla nostra Costituzione?
Abbasso i
BANKSTERS!!!
By Michele
Barbera