Sono veramente pochi i romanzi
che fanno discutere – con tanto ed il contrario di tanto – anche a distanza di settant’anni
dalla loro pubblicazione.
Come “Piccola Pretura” di
Loschiavo.
Solo per questo il romanzo
meriterebbe di essere letto e gustato.
Onore al merito, dunque,
all'Editore Aulino che, con una coraggiosa scelta, ha deciso di donare ai
lettori di oggi, in un'accattivante e nuova veste tipografica, il romanzo da
cui Pietro Germi ha tratto nel 1949 il capolavoro del cinema “In nome della
legge”, antesignano di una serie di fortunate pellicole ambientate in una
Sicilia da feuilleton, da romanzi di cappa e spada, in cui il bene
lottava eroicamente contro il male.
Germi girò il film, che taluni
definirono - con modaiola ampollosità american style - “il primo
western italiano”, nel centro siciliano di Sciacca. La città all’epoca ha
fatto da sfondo, oggi diremmo location, anche ad altre sceneggiature di
successo quali Sedotta ed abbandonata.
Ma di primati il romanzo ed il film, ne hanno altri.
Ma di primati il romanzo ed il film, ne hanno altri.
Sia pure con sfumature narrative
e stili differenti (ampiamente dibattute e discusse), sono precursori di quella
multimedialità (cinema, libri, fiction, documentari) che i tuttologi chiamano
“mafiologia”, termine ovvio che non sto qui a spiegare.
Ritornando al romanzo in sé, l'autore è Giuseppe Guido Loschiavo, un magistrato palermitano, nato nel 1899 e morto nel 1973. Loschiavo, che percorse tutta la carriera giudiziaria, sino ad arrivare a Presidente della Corte di Cassazione, pennellò l'opera di generosi e visibili tratti autobiografici. Loschiavo, a fronte delle persistenti
polemiche innescate dai “mafiologi” (e di primo rango) sui suoi scritti, ebbe
il lungimirante e mirevole buon senso di fregarsene. Con lo spirito di
indipendenza proprio da magistrato, diede libero sfogo al suo pensiero dando
alle stampe nel 1954 persino un contestatissimo e controverso articolo sulla
morte di “don” Calò Vizzini il boss dei boss di Villalba.
Quello che più colpisce è che a
fulminare di strali il romanzo di Loschiavo non è il pensiero oscurantista o
inquisitorio, ma l'avanguardia del progressismo laico e liberopensatore.
Peccato che tutto avvenga a posteriori e non tenga conto né dell'epoca in cui
il romanzo è stato scritto, né di quella in cui è stato ambientato.
Il giudice e scrittore G.G. Loschiavo |
Lo storico Antonino Cutrera,
autore nel 1900 del saggio “La mafia ed i mafiosi”, corredato persino da una
“mappa” della diffusione mafiosa in Sicilia, ben ritrae la confusione che vi
era ad inizio secolo attorno al fenomeno mafioso, visto più come un dato
sociologico che criminale. Il saggio ritrae a tutto tondo la querelle tra
studiosi stranieri che accusano la forza criminale della mafia e i pensatori
italiani che si rifugiano in immagini vetero-romantiche quali i Beati Paoli e le società carbonare segrete. Stupisce, per l'epoca, l'accuratezza del
tedesco Carl August Schneegans che affermò “la
mafia è ad ogni modo uno Stato nello Stato, rappresentando una forza illegale
ed arbitraria, la quale invade l'ordine e la legalità”.
Oggi fanno riflettere le parole
di Maria Falcone, sorella di Giovanni: “La mafia prima, non sapevamo cosa
fosse. L'unica volta che ne parlammo in famiglia, quando abitavamo in via
Castrofilippo, ricordo che fu in coincidenza con l'uscita del film “In nome
della legge”. Ma anche in quel caso si rivelò un discorso su un problema che
non sentivamo vicino a noi”.
Sciascia, il senatore comunista
Berti, lo stesso Camilleri si sono scagliati, in tempi e modi diversi contro il
film ed il romanzo, colpevoli, a loro dire, di ritrarre un matrimonio
impossibile tra mafia e stato, tra il codice d'onore della mafia e la legalità.
Si tratta, è chiaro, di letture
postume, non contestualizzate del romanzo, che non colgono la “zona grigia” del
pensiero, anche giuridico, che ancora nel 1969 faceva statuire alla Corte di
Assise di Bari che “non si potrà attribuire alla qualifica di “mafioso” se
non il valore di semplice qualità personale rivelatrice di una spiccata
potenzialità criminale ma non ancora produttiva di effetti penalmente
rilevanti” (risultato: assoluzione di 64 imputati, fra cui Riina,
Provenzano, Bagarella e Liggio).
Il comune sentire, anche
giuridico, è figlio dei tempi e muta. E così, nel 2014, il giudice Scarpinato
apostrofò il film come una trappola culturale, “una favola western
ambientata in Sicilia con un epilogo utopistico e consolatorio: il capomafia
che si toglie il berretto di fronte al giovane magistrato coraggioso e con tono
da John Wayne esclama: “è ora di rientrare nella legge”.
È significativo, tuttavia, che un boss del calibro di Buscetta,
davanti a Giovanni Falcone, dichiarò che il giudice gli trasmetteva la calma e
la forza tranquilla della giustizia allo stesso modo del Pretore del film di
Pietro Germi. Buscetta riconosceva che nel film il Pretore riusciva a piegare,
dopo una lotta difficile, la legge della mafia a quella dello Stato.
Potrei continuare per pagine a
riferire del pensiero contrastato sul romanzo di Loschiavo.
Voglio fermarmi qui.
Voglio lasciare i lettori approfittare
dell'iniziativa di Aulino per gustare questa chicca letteraria che a buona
ragione potremmo ascrivere quale classico con cui, nel bene e nel male, autori del
calibro di Sciascia, Camilleri ed altri hanno dovuto fare i conti,
narrativamente parlando.
Leggere del Pretore Guido Schiavi
(richiamo onomobiografico dell'autore?) è come leggere dell'antesignano
dello sciasciano capitano Bellodi o del nonno del commissario Montalbano.
La mafia, il baronesimo (crasi di
barone e feudalesimo), la lotta della giustizia ed alla sopraffazione sociale,
sono temi che il romanzo affronta nello spirito del suo tempo, con lo stile e
la tempra di un’opera storica che tale vuole essere.
Il romanzo non ha dietrologie a
cui rendere conto. Probabilmente, è più corretto vederlo come il diario postumo
di un giovane magistrato che deve affrontare la realtà difficile di una Sicilia
devastata dall'eredità post-borbonica e dell'annessione sanguinosa e violenta
al Regno d'Italia che scagliò i suoi strali sopratutto contro le classi più
povere, spazzando ogni resistenza con stragi ed eccidi capitanati da Garibaldi,
servo utilmente idiota di lobby affaristico-politiche.
Se è sbagliato romanzare la mafia
o, almeno, quella della post-Unità, altrettanto lo è esaltare il falso eroismo
degli invasori piemontesi che alimentarono il risentimento popolare per i tanti
atti di ingiustizia perpetrati.
Insomma, il romanzo va letto e
discusso con gusto ed intelligenza, il dibattito è aperto: con l'unica certezza
che la mafia va combattuta e deve essere sconfitta.
In nome della legge. Parola del
Pretore Guido Schiavi.
By Michele Barbera