Chi non è
mai stato a Malvagna, una terra sospesa fra la Valle dell’Alcantara
ed il cielo etneo, non può comprendere e capire sino in fondo Josè
Russotti, celebrato artista poliedrico, che fonde in uno raro e
splendido connubio, l’espressione viva del suo vivere l’arte:
pittore non massificato, dai tratti autenticamente originali, per
tecnica e contenuti, e cultore acuto, estremo e raffinato dell’arte
dei versi.
Nella
silloge Spine d’Euphorbia
Russotti ha distillato purezze emozionali in solfeggi di versi
sciolti, arricchiti da un’armonia di respiro universale.
L’essenzialità profonda ed intimistica della poesia di José
Russotti la si intravede sin nella tela cha anima la copertina della
silloge. È un suo quadro, in cui nudità essenziali, dolorose, fanno
da contrappunto ad una quotidianità metafisica, espressa in un
semplice e simbolico filo da lavandaia spoglio, che taglia
l’orizzonte del dipinto. Quel quadro è una finestra nell’anima,
il fotogramma di un disagio doloroso, scolpito nel nero-profondo
della roccia lavica, ripiegata su se stesso.
Uno strano
matrimonio quello tra il dolore dell’uomo e la grandiosità della
natura: Josè Russotti ama la sua terra, soffre per essa e la sua
musa lirica si nutre direttamente ed attinge sacralmente al genius
loci, di cui diventa vestale fedele e custode
appassionata dell’oikos
d’ellenica effige.
Non c’è
una semiologia unica nei versi, ma, seguitando il pensiero del
filosofo acheo, nulla di ciò che riguarda l’uomo è estraneo al
poeta, il vissuto emozionale – creta informe – diventa magma da
plasmare, lava stratificata dalla memoria, che talvolta lambisce e
talvolta travolge il senso stesso della vita universale. Nella poesia
di Russotti c’è la condanna alla “nostra
insulsa indifferenza”, c’è la mano tesa
ai “neri invisibili”:
“sono voci che chiamano e si cercano/negli
occhi sgranati dentro un vuoto di nulla”. C’è
Malvagna, c’è l’Alcantara, c’è la Sicilia, c’è il mare,
c’è una natura ed un paesaggio urbano “non convenzionale” che
diventa rifugio, guaritore e panacea dell’animo umano, tempio
indissolubile, ma anche timore per l’“amaro
evolversi”: “che
ne sarà di queste case di calce erosa/ e pomice di lava antica?”,
dove riecheggia, acuta, l’eco ancestrale delle leopardiane e fatali
magnifiche sorti e progressive che pure Russotti reinterpreta in più
punti con l’insistente richiamo alla “ginestra”, resiliente
metafora del male di vivere.
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Josè Russotti |
Nell’ipogeo
poetico di Russotti si agita inquieto lo spettro di mille tempeste,
di mille passioni e di una memoria storica striata da tenui rimpianti
e da vividi dolori. “Ne rimane lieve
memoria/fissata nel lampo/ d’uno scatto istantaneo…nei
ripensamenti acuti/fitto di trame crudeli”. Il
tazebao poetico di Russotti diventa tela bianca in cui fissare ritmi
e sinfonie policrome, all’insegna del più puro spirito
espressionistico, in cui la realtà è fortemente caratterizzata ed
enfatizzata da colori e scene dolorose e violente, che, come in un
agone prometeico, danzano “dentro un fuoco
di lava”. In questi tratti emerge la
passionalità assolutizzante di Josè Russotti che, in tema d’amore,
non ammette compromessi: “era come un
cercarci tra pazzia e dolore/ tra parole di collera e notti insonni”.
Le spine “aguzze” d’Euphorbia diventano metafora dell’amarezza
del sentimento inespresso: “come spine
aguzze d’Euphorbia/serbo ancora sul volto/ le lacrime amare del
congedo”, o anche afflato d’amore
sensuale e tormentato: oh amore amaro senza
nessuna lusinga…/ di spine acute d’Euphorbia nei fianchi!/ Rimani
davanti alle mie mani e lasciati cullare”. Ma
se l’amore è dolore, è allo stesso tempo speranza che dà voce
alla memoria ed ai rimpianti. Così è per il dolce ritratto della
madre, forte e delicato, “presenza divina”,
“brace per l’inverno inoltrato”, e
mentre nell’attimo fatale del distacco, “un
silenzio assordante/di carne lacera/ s’impossessò/ di quella
stanza/ austera”, il poeta-figlio rimane
“inerme/nell’angolo mesto della pena”,
piange “dolorosamente/adagio…/per
non destarla”. Anche l’amicizia diventa
per il poeta un aspro terreno di scontro in cui dolore e destino non
risparmiamo fendenti, talora mortali. Allora, accanto al “grido
sconfinato” per la morte dell’amico
Salvatore Gaglio, poeta anche lui, Josè Russotti adagia il suo
icastico memoriale: “e in questa nuda
Sicilia che tanti amasti/ solo le lacrime bagneranno i fiori del tuo
giardino”.
Le poesie
della silloge sono, perciò, calde digressioni, variazioni
sull’empatia universale, venate da malinconica e struggente saudade
di cui pure, per la nascita sudamericana, la vena poetica di Josè
deve averne parte. Nella consapevole fuggevolezza dell’esistenza
“breve” e nella
coscienza della precarietà del domani, il poeta si rivolge alla
coscienza collettiva della sua città natale per esorcizzare, con un
ferale monito a non piangerlo, l’”inavvertito
congedo” di chi “vive
il dolore”. Lo stesso topos, sommo e
tragico, lo ritroviamo nella lirica dedicata al padre: “è
soltanto un attimo veloce/come sguardi rubati al tempo/ perché l’età
avanza e cancella”.
L’esiziale
fine della vita, il tema della morte-distacco-abbandono che “passa
addosso”, ineluttabile e crudele,
costringono Josè a cercare spazi da riempire con sentimenti veri,
che veicola per il lettore, con messaggi subliminali per sconfiggere
l’”angoscia dell’attesa”
, egli dà al lettore un filo d’arianna, un viatico spirituale: “ti
lascio una crepa di lava/ dove ho deposto la mia pazienza”
.
La lava è
l’archetipo naturistico, l’ossimoro poetico di Josè Russotti: è
la linfa della terra, vita e distruzione, ma è anche tomba, custodia
ancestrale, culla-bozzolo: “nessuno/avrà
rimpianto/della mia pelle/sporca di contrasti./ Nessuno/poserà un
fiore/sulla stele di lava brunita”.
L’esistenza
umana per Josè è un gioco tragico di ombre e luci, in cui i
protagonisti sono preda di un destino che si fa beffa di loro. Per
avere la nostra parte e viverla appieno, dobbiamo spogliarci di ogni
orpello ipocrita, metterci a nudo con gli altri, servirli dei nostri
sentimenti, dell’autentica debolezza del nostro cuore, che trabocca
d’amore di creature imperfette, sino a divenire elogio stesso
dell’imperfezione.
La vita è,
in ultima analisi, un gioco delle parti, una commedia. Se non divina,
umana. Come direbbe Nietzsche, sin troppo umana.
By Michele Barbera